Bioterapia Nutrizionale ed attività sportiva

Bioterapia Nutrizionale ed attività sportiva

Introduzione

Dell’alimentazione nei soggetti dediti ad attività sportive si sono occupati nei secoli medici ed allenatori, essendo evidente che lo sforzo fisico richiedesse particolariaccorgimenti nutrizionali. Le opinioni discordanti riguardavano l’utilità o meno di un’alimentazione a base di carne o di legumi e vegetali. Mentre Pitagora era sostenitore diun’alimentazione quasi esclusivamente vegetariana, Ippocrate introdusse il concetto fondamentale di varietà nutrizionale nella qualità e quantità e nella temperanza senza eccessi.Alcuni consigli nutrizionali agli atleti dei giochi olimpici dell’884 a.C. costituivano una prima empirica intuizione della valenza nutrizionale specifica dei vari tipi di carne; infatti, siconsigliava il consumo di carne di capra ai saltatori, quella di cavallo ai corridori e quella di toro o di maiale per i lottatori ed i gladiatori. I medici del Medioevo osservarono la differenza strutturale e funzionale tra l’organismo dei monaci che, dediti alla preghiera ed alla contemplazione, praticavano un’alimentazioneesclusivamente vegetariana, rispetto all’imponenza, all’energia ed all’aggressività dei guerrieri, i quali privilegiavano il consumo della carne. A fronte dell’empirismo di molte osservazioni, spesso dettate anche da motivazioni religiose e filosofiche, l’alimentazione nei soggetti che pratichino attività sportive deve tenerconto della differente costituzione individuale, delle specifiche esigenze energetiche conseguenti al tipo di sforzo fisico e della necessità di ristrutturazione tessutale durante e dopol’attività sportiva. Il problema socialmente più rilevante di cui ci si vuole occupare in questo capitolo è non tanto e non solo quello dell’alimentazione degli sportivi professionisti, che sono in generecontrollati da personale tecnico e medico altamente qualificato, quanto piuttosto dei giovani o dei ragazzi dediti ad attività sportive dilettantistiche, a volte sporadiche e saltuarie.Problema non secondario è quello degli adulti che, in conseguenza di false spinte salutistiche o di modelli estetici che associano impropriamente l’efficienza alla magrezza esasperata, possono incorrere in seri problemi di salute se non integrano con una corretta alimentazione una attività sportiva praticata secondo buon senso.

Fisiologia ed esigenze nutrizionali dell’atleta

Dal punto di vista della fisiologia e della fisiopatologia umana, l’attività sportiva professionale o amatoriale non può essere equiparata semplicisticamente ad una attivitàmuscolare tipica di tutti i lavori manuali. In primo luogo, lo sportivo ha un dispendio energetico a causa di uno stress neuro-psichico da tensione agonistica, che manca in qualsiasiattività muscolare di tipo lavorativo. In secondo luogo, la funzionalità neuro-muscolare viene sollecitata fino ai limiti estremi delle possibilità umane, con usura e microlesioni dellefibrocellule; ne consegue la necessità di efficienti sistemi emuntoriali per eliminare le scorie tossiche e di adeguati apporti nutrizionali per operare le indispensabili riparazioni cellulari. Nella gestione nutrizionale degli atleti, il medico non può ignorare che si tratta di un’attività umana non prevista geneticamente, in quanto non è biologicamente indispensabile per la sopravvivenza e la propagazione della specie. Esasperando questo concetto, si potrebbe considerare l’attività sportiva una sollecitazione impropria dell’organismo ai limiti del patologico. Se da un lato il movimento è la condizione indispensabile per preservare nel tempo l’efficienza psico-fisica dell’uomo, il movimento esasperato dell’atleta professionistadeve essere preceduto da una rigorosa preparazione e da un adeguato supporto nutrizionale. Di gran lunga più pericolosa è l’esagerazione atletica dello sportivo della domenica odei ragazzi in età scolare sollecitati ad un agonismo eccessivo; in questi casi si possono verificare dei danni acuti, sotto forma di patologie osteo-articolari o cardio-circolatorie e, soprattutto, di patologie croniche. Infatti, come qualsiasi lavoro, anche quello muscolare produce una notevole quantità di scorie tossiche, un esaurimento delle riserve energeticheed elettrolitiche e una richiesta di nutrienti adeguati per ristrutturare i tessuti usurati dalla fatica. Per questa ragione è così frequente il malessere successivo all’attività fisica impropria da parte dei soggetti che la affrontano in condizioni di carenza nutrizionale, con l’illusoria speranza che la relativa perdita di peso sia reale e non, come è in realtà, un semplice e momentaneo dispendio di liquidi, di sali minerali, di preziosa energia vitale e di proteine nobili che non possono essere sostituite. In queste condizioni non è infrequente lo slatentizzarsi di patologie ereditarie, quali il diabete o l’ipertensione. L’alimentazione di soggetti che svolgono attività sportiva a livello professionale deve essere programmata in base alle caratteristiche individuali, al tipo di sollecitazione psico-motoria (sport caratterizzati da sforzi di lunga durata o da prestazioni brevi ed intense) ed in funzione della frequenza e dei tempi di allenamento. Costituzionalmente un atleta vero ha delle caratteristiche sui generis dal punto di vista fisico e mentale, che gli permettono di emergere nella sua specialità. In qualche modo, deve essere considerato un individuo aldi fuori della norma, dotato di un metabolismo particolare che il medico deve studiare, al fine di approntare il necessario regime dietetico. Nell’equilibrio nutrizionale incide anche iltipo specifico di prestazioni sportive, distinte grossolanamente in: aerobiche, quali il ciclismo, il nuoto o la corsa di resistenza, caratterizzate dal fatto che l’intensità e la durata dellosforzo muscolare non comportano accumulo di acido lattico nelle fibrocellule muscolari; aerobiche-anaerobiche alternate, come alcuni sport di squadra, quali il calcio, il basket, la pallavolo; infine, anaerobiche (centometristi, sollevamento pesi, ecc.), nelle quali lo sforzo, intenso e di breve durata, provoca produzione di acido lattico, notevoli macro e microtraumi tessutali e richiede particolari doti di concentrazione ed equilibrio neuro-psichico.

Negli sport “anaerobici”, caratterizzati da produzione di acido lattico, bisognerà gestire l’alimentazione in modo da fornire zuccheri complessi, che provvederanno una presenza costante e prolungata del glucosio ematico. Infatti, la somministrazione di zuccheri semplici, dopo una fase di rapida iperglicemia, provocherebbe una caduta del tasso glicemico, con aggravamento del metabolismo energetico della fibrocellula muscolare. Per esempio, tutte le associazioni a base di mandorle o di fichi secchi con il pane forniscono un notevole apporto energetico, con rilascio progressivo degli zuccheri, mediato dai lipidi insaturi e dall’azione miorilassante e sedativa delle mandorle. Anche l’associazione diformaggio, miele e pinoli risponde alle stesse esigenze bionutrizionali. Controindicata è l’associazione di prosciutto e melone, in quanto agirebbe in modo troppo marcato sulla funzionalità tiroidea, sia per le proteine concentrate del prosciutto, sia per lo iodio e l’azione diuretica del melone, controindicata in un soggetto reduce da una intensa attivitàpsicofisica.

Tono nervoso ed attività sportiva

Un fattore fondamentale da considerare negli atleti è lo stato di tensione ed emozione preagonistica, con conseguente sollecitazione della funzione tiroidea ed ipereccitabilità neurologica, che può sfociare in vere e proprie crisi di panico nei soggetti predisposti. Questo stato di preallarme richiede un’attenzione bionutrizionale nei riguardi della tiroide. Infatti, questa ghiandola viene chiamata in causa dalla necessità organica di accelerare i metabolismi, in previsione dello sforzo da sostenere; l’aumento eccessivo della sua funzione può generare disturbi psico-fisici che possono compromettere la prestazione atletica. Dal punto di vista bioumorale, è frequente rilevare un aumento del pH urinario verso valori francamente alcalini (da 6.5 verso 8.0), ancora prima della iperproduzione dei cataboliti acidi, conseguenti al lavoro muscolare.

Pertanto, bisognerà evitare ogni associazione alimentare che possa sollecitare impropriamente la tiroide, aumentare l’irritabilità del sistema nervoso e alterare la funzionalità pancreatica, con conseguenti squilibri glicemici; infatti, questi ultimi possono provocare delle vere e proprie crisi di panico che comprometterebbero le prestazioni agonistichedell’atleta. Nello stesso tempo, bisognerà essere attenti a non sedare eccessivamente il soggetto, in quanto si ridurrebbe la capacità di concentrazione e la capacità di risposta competitiva, rischiando, in previsione dello sforzo agonistico, di aumentare l’ansia dell’atleta.

Alla luce delle precedenti osservazioni, nella programmazione bionutrizionale preagonistica, si eviteranno gli alimenti e le associazioni alimentari di cui sia noto l’effetto eccitante a carico della funzionalità tiroidea e di quella neurologica.

Contemporaneamente, si limiteranno gli alimenti dotati di spiccata azione sedativa, soporifera e miorilassante, preferendo tutte le associazioni dotate di effetto riequilibrante e disostegno del sistema nervoso e muscolare. Alla luce delle conoscenze biochimiche circa il notevole consumo di zuccheri da parte degli organi ed apparati implicati nellaprestazione agonistica, richiederà particolare attenzione la gestione del metabolismo glicemico. Sarà considerato l’equilibrio elettrolitico, fornendo nutrienti ricchi di calcio e potassio, quali alici e frutti di mare, salmone cotto con burro e mandorle, verdure ripassate con capperi ed uva sultanina (il triptofano e gli zuccheri di quest’ultima moduleranno un eventuale eccesso di stimolo tiroideo da parte dei capperi); analoga associazione è quella dei capperi con i pinoli, quando all’azione sedativa si vuole associare un apporto dicalcio. Se si impiega il pesce ai ferri, bisognerà associare il formaggio, in modo da fornire una consistente quota di calcio che frenerà lo stimolo tiroideo dello iodio del pesce, in virtù di un’azione diretta a carico delle paratiroidi. Gli esempi precedenti dimostrano come la Bioterapia Nutrizionale, a partire dalle esigenze generali di un organismo sollecitato da una attività sportiva, nel programmare la condotta alimentare adeguata, considererà il tipo di sforzo richiesto e, soprattutto, le caratteristiche individuali del soggetto, studiato dal punto di vista anamnestico e costituzionale.

In questo capitolo, dedicato ad atleti non professionisti e alle madri o ai responsabili delle mense scolastiche che siano sensibili all’importanza dell’alimentazione dei ragazzidediti ad attività sportiva, lo scopo è quello di offrire una prima idea degli errori nutrizionali da evitare ed una base di ragionamento per impostare una adeguata nutrizione. Ci èsembrato più semplice ed immediato proporre direttamente i pasti principali della giornata, offrendo una seria di considerazioni e di riflessioni sull’utilità o meno di singoli alimenti odi associazioni alimentari.

Colazione

Gli atleti che pratichino sport di resistenza e/o di potenza devono curare la loro alimentazione a partire dalla colazione. La quota proteica deve essere presente fin dal mattino, componendo il pasto a seconda delle preferenze individuali. La richiesta proteica in tutti gli atleti è giustificata dalla necessità organica di operare delle riparazioni tessutali continue per la sollecitazione (spesso violenta) e l’usura delle strutture muscolo-connettivali. Non potendo sovraccaricare il metabolismo con eccessi proteici a pranzo e cena, pena unaeccessiva fatica renale, si rende necessario distribuire questa fondamentale componente nutrizionale ad iniziare dal pasto mattutino.

Per esempio, si potrà impiegare l’uovo (crudo, alla coque, sodo, strapazzato, ecc.), in quanto questo alimento risponde più di ogni altro a tutte le esigenze nutrizionali di un organismo sottoposto a stress psico-fisico. L’uovo sodo, ancor più di quello strapazzato, per la sua capacità di sollecitare le funzioni surrenalica e tiroidea, aumenterà il tono generale ed il metabolismo organico; pertanto, sarà indicato nei soggetti tendenzialmente ipotesi ed in quelli in cui bisogna evitare una tendenza all’aumento ponderale. Viceversa, l’uovo crudo o alla coque potrà essere vantaggioso in tutti gli altri casi. Quando l’uovo non è gradito o deve essere escluso per il suo potere allergizzante, si potrà impiegare ilprosciutto crudo o la bresaola, nella quantità di 60-80 g. L’uso del formaggio al mattino deve essere valutato attentamente; infatti, questo alimento fornisce preziosi nutrienti ed unanotevole carica energetica di immediata biodisponibilità, ma presenta le seguenti controindicazioni: a) stipsi; b) ipertensione; c) irritabilità; d) imbibizione tessutale.

La seconda componente nutrizionale della colazione dovrà essere quella dei sali minerali, in quanto i traumatismi e lo sforzo muscolare intenso, di frequente superiore allacapacità fisiologica, provocano perdita di liquidi e sali, proporzionalmente maggiore in caso di elevate temperature ambientali. Se non coesiste una diatesi allergica, l’alimento piùutile sarà il latte intero fresco nella quantità di 200-300 cc, addizionato con caffè (se l’intestino dello sportivo è tendenzialmente pigro) oppure tè (se predomina una facilità alle scariche intestinali frequenti). Nel caso in cui non sarà possibile proporre il latte, l’apporto di liquidi nutritizi potrà avvenire con l’impiego di una macedonia di frutta. Per quanto riguarda la necessaria quota di carboidrati, si potranno proporre con una certa disinvoltura il pane con la marmellata, dei biscotti di buona qualità o dei croissant. Una colazione organizzata in questo modo è sufficiente per compensare le esigenze energetiche e nutrizionali fino all’ora di pranzo. Tuttavia, se di mattina sono previste dellegare o degli allenamenti di una certa intensità, a metà mattinata sarà necessario reintegrare il consumo di zuccheri, nonché la perdita di liquidi e di sali minerali. La soluzione ottimale è quella di proporre dei centrifugati di frutta o di verdura, da bere a piccoli sorsi negli intervalli dell’attività sportiva, in modo tale da non impegnare troppo il circolo sanguigno entero-epatico in un momento in cui il sangue è impegnato per apportare ossigeno e nutrienti alle fibrocellule muscolari. Quando non è possibile disporre di centrifugati, si può usare la premuta di pompelmo ed una banana (zuccheri e potassio), evitando in modo drastico l’uso dell’acqua. Nella peggiore delle ipotesi si aggiunge all’acqua minerale del succo di pompelmo o di limone, in modo da avere comunque una componente nutrizionale insieme alla quota idrica. A questo proposito è necessario chiarire alcuni meccanismi fisiologici e fisiopatologici che vengono spesso ignorati quando, in presenza di sete intensa durante lo sforzo fisico,si fa bere solamente acqua (magari fredda). Il contatto dell’acqua con la mucosa gastro-duodenale provoca una immediata congestione locale, tanto più marcata quanto più l’acquaè abbondante e fredda. Questo fenomeno induce una riduzione dell’apporto ematico ai muscoli ed al cervello, per cui si verifica un calo della prestazione sportiva ed una riduzionedella lucidità e della concentrazione mentale. Delle varie sostanze che introduciamo nel nostro organismo attraverso il canale digerente, l’acqua è quella più “indigesta” e priva di potere nutrizionale (con l’unica eccezionedella componente minerale). Infatti, nella letteratura medica è ben documentato il quadro clinico di intossicazione da eccesso di acqua, la cui prognosi è spesso severa. Del resto, l’arrivo di un liquido privo di nutrienti in un organo che, come lo stomaco, è predisposto all’elaborazione degli alimenti, non può che creare una condizione di difficoltà. Il nostro organismo, in condizioni fisiologiche, provvede a reintegrare le sue perdite liquide a partire esclusivamente dall’acqua contenuta negli alimenti; quest’ultima è differente da quella“esterna”, in quanto è stata filtrata ed elaborata da un organismo vivente, tanto da potersi definire “acqua di vegetazione”, paragonabile al nostro liquido interstiziale. Pertanto, in condizioni medie di temperatura, pressione ed attività fisica, l’organismo umano non manifesta la necessità di un supplemento di acqua attraverso la sensazione della sete. In ogni caso, l’ingestione di acqua “esterna” in modo forzato costituisce sempre un fattore di disturbo dei metabolismi organici e dell’attività renale, sempre molto sollecitati in ogni attivitàsportiva.

Pasto di mezzogiorno dopo l’allenamento di mattina

In questa condizione psico-fisica devono essere sempre presenti gli idrati di carbonio, in particolare la pasta in quantità moderata (in media quantità fisiologiche oscillanti da 80 a 100 g) per non indurre un appesantimento digestivo, per non favorire un aumento di peso corporeo e per non creare una abitudine a quantità eccessive di carboidrati, che si siripercuoterebbe negativamente a carico dell’equilibrio organico di questi atleti nel momento in cui smetteranno l’attività sportiva agonistica. Ai carboidrati va aggiunta una proteina animale, scelta a seconda delle caratteristiche individuali. Per esempio, il soggetto che manifesta un certo affaticamento renale (possibile quando si sollecita eccessivamente la fibrocellula muscolare) si gioverà delle proteine del pesce e della carne bianca; la carne di maiale, invece, sarà indicata quando esiste unaereditarietà diabetica e sia necessario fare attenzione all’equilibrio glicemico; la carne rossa, infine, potrà essere impiegata nei soggetti costituzionalmente magri, che necessitinodi una più marcata ristrutturazione organica. Il pesce (nella quantità di 300-350 g) deve essere rigorosamente fresco, in quanto quello surgelato viene addizionato di antimicotici, antibiotici e conservanti, con grave danno organico in soggetti che già producono elevata tossicità in conseguenza degli sforzi muscolari intensi. La carne deve essere calcolata intorno ai 200-250 g e, dopo l’allenamento, dovrebbe essere poco cotta, se non addirittura cruda, in modo da avere la minore denaturazione proteica e liberazione di purine. Per esempio, carpaccio di carne rossa, prosciutto o bresaola (entrambi nella quantità di circa 100 g), gli straccetti (fettine molto sottili di carne rossa cotte per immersione in olio bollente, rosmarino, aglio e peperoncino per un tempo molto breve), il carpaccio di pesce spada o di salmone, 100 g di salmone affumicato o 200 g di alici marinate. Nei soggettiche non presentino intolleranze o controindicazioni (tendenza ai rialzi pressori, stipsi, calcolosi colecistica o affaticamento epatico), la quota proteica a pranzo può essere fornitaanche attraverso 250 g di mozzarella o 200 g di provola ai ferri. Il formaggio potrà essere utile quando siano clinicamente più evidenti le perdite di calcio e di sali minerali, ma risultameno utile della carne ed del pesce per quanto riguarda la ristrutturazione delle microlesioni muscolari ed osteoarticolari. Infatti, il formaggio deriva dal latte, vale a dire da un alimento che ha biologicamente il compito di accrescere in toto un organismo vivente, soprattutto dalla nascita ai primi anni di vita, e non di riparare i danni tessutali di un adulto. Aquesto proposito, anche il pesce è dotato di una minore capacità ristrutturante rispetto alle proteine della carne, in quanto le sue proteine, pur essendo differenziate, sonofilogeneticamente più lontane da quelle umane. Per agevolare il drenaggio renale dopo l’allenamento, il contorno deve essere costituito rigorosamente da verdure crude ricche di acqua di vegetazione. Potremo utilizzare, a seconda delle necessità o dei gusti: due finocchi, 150 g di sedano, l’indivia riccia, l’indivia belga, le puntarelle, il cavolo cappuccio crudo, i carciofi crudi, il cavolfiore crudo, le carote crude, rispettando le esigenze individuali dell’atleta e a seconda della maggiore azione epatica, renale o tiroidea richiesta. Anche nella scelta della frutta, bisognerà utilizzare quella più ricca di liquidi, come l’uva, la macedonia di frutta mista, l’ananas, il melone o l’anguria, un arancio o 4-5 mandarini. Meno indicati sono la pera, per l’eccessiva ricchezza in sali minerali, il loto, i fichi d’india (polivitaminici non diuretici, a differenza dell’anguria). Quando gli impegni sportivi si limitano all’allenamento mattutino, a pranzo potrà essere utile proporre un bicchiere di vino rosso, a condizione che sia genuino e possibilmente non pastorizzato. Questo alimento apporta una serie di preziosi nutrienti, fra i quali il ferro, i flavonoidi e numerosi altri micronutrienti e catalizzatori biologici.

Pasto prima dell’allenamento pomeridiano

In questo caso, le esigenze nutrizionali sono quelle di apportare all’organismo i necessari nutrienti e le indispensabili energie per lo sforzo muscolare, senza creare unacongestione ed un appesantimento del circolo artero-venoso splancnico, che ridurrebbe le capacità muscolari dell’atleta. Il pasto dovrà essere composto da un carboidrato contenuto in un insieme che comprenda anche una minima ma indispensabile quota proteica, come i tortellini, i bucatini all’amatriciana, la carbonara, la tagliatella al ragù, i rigatoni alla norcina (sugo preparato con una salsiccia di maiale sbricciolata, rosolata in padella con aglio, olio, pomodoro, basilico e peperoncino e addizionata di panna e parmigiano). Il vantaggio di queste preparazioni alimentari è costituito dal lento rilascio dell’idrato di carbonio (con un rialzo glicemico contenuto, ma più prolungato nel tempo, in modo da sopperire alle necessità energetiche secondarie allo sforzo muscolare) e dalla moderata quota proteica che non impegna in modo eccessivo i processi digestivi. Si aggiungerà un contorno costituito, in questo caso, anche da una verdura cotta, come le zucchine trifolate (per il potassio), la cicoria ripassata (per il drenaggio renale), gli spinaci al burro, il radicchio alla piastra (per il ferro), il cavolfiore aglio, olio e peperoncino, la verza ripassata o i broccoli in padella (per lo iodio), i carciofi trifolati (per la cinarina edil ferro). Il pasto sarà completato dalla quota in vitamine, fruttosio ed acqua di vegetazione della frutta.

Cena dopo l’allenamento pomeridiano

Le esigenze organiche da compensare a cena dopo l’allenamento pomeridiano sono prima di tutto il drenaggio renale, con una minore esigenza ristrutturante, da rimandare per ilgiorno successivo. Infatti, il corpo modifica il suo metabolismo durante il riposo notturno e la stasi faciliterebbe i ristagni organici, qualora la quota proteica del pasto serale fosse troppo abbondante.

Molto difficile, se non impossibile, è compensare i deficit biologici conseguenti ad attività sportiva o allenamenti intensi svolti durante le ore serali o notturne. Volente o nolente, l’essere umano funziona in sintonia con i ritmi ambientali e tutta una serie di processi organici avvengono in funzione dello stimolo della luce o del buio. Molti atleti conoscono perfettamente le ore del giorno durante le quali la loro resa sportiva è massima o minima, tanto da rifiutare le gare se non vengono programmate negli orari a loro più congeniali. Normalmente, i soggetti che hanno un bioritmo surrenalico fisiologico (massimo dell’attività funzionale dalle cinque alle sette di mattina), esprimono il massimo della vitalità nelle prime ore del giorno. Viceversa, esistono organismi che esprimono il massimo della loro potenzialità durante le ore pomeridiane e di queste variabilità individuali si deve tenerconto nella programmazione individuale dell’alimentazione. Se a pranzo, prima dell’allenamento, era stato necessario impiegare una pasta complessa, a cena si potrà proporre un carboidrato semplice come le penne all’arrabbiata, gli spaghetti aglio, olio e peperoncino o ai frutti di mare (calcio e iodio), i rigatoni al pomodoro, i fusilli pomodoro e basilico, ecc. La ragione per la quale in soggetti sottoposti a stress psico-fisico è preferibile impiegare i carboidrati della pasta agli amidi del riso e delle patate sta nel fatto che l’azione iperglicemica degli zuccheri più biodisponibili dell’amido provocherebbe una fase ipoglicemica durante le ore notturne che priverebbe l’organismo dell’energia necessaria per lo smaltimento dell’acido lattico accumulato nei muscoli dopolo sforzo fisico. La quota proteica di sera dovrà essere scelta ed associata in modo tale da non disturbare il rilassamento notturno, non mettere in difficoltà la funzionalità renale e non aumentare in modo significativo la già notevole attività detossicante del fegato. Per esempio, sarà indicato il petto di pollo o di tacchino panato, la scaloppina al limone o al vino bianco, le polpette, le crocchette di pollo o di carne rossa, le granatine al marsala (più ricco di tannini e quindi più sedativo) o al madera (più ricco di zuccheri), consistenti in piccole palline dicarne macinata condite solo con sale e prezzemolo, rosolate nel burro e sfumate con due tipi di vini passiti e dolci, che apporteranno zuccheri utili per il fegato. Avendo i tessuti imbibiti dal lavoro muscolare pomeridiano, il contorno sarà costituito esclusivamente dalle verdure crude, come nel pasto di mezzogiorno dopo l’allenamento mattutino. Infine, si aggiungerà la frutta di stagione e, a scelta, un bicchiere di vino. Per quanto riguarda la birra, il suo contenuto in lieviti e vitamine del gruppo B potrebbe provocare gonfiore addominale e meteorismo che disturberebbero il riposo notturno,senza il vantaggio di un particolare contenuto in nutrienti utili per un atleta. Per lo stesso motivo, può essere concessa la gratificazione di una pizza, a condizione che il giorno successivo sia di riposo.

Prima della gara agonistica

In questa fase bisognerà tener conto del tono nervoso dell’atleta, variabile da individuo ad individuo, cercando di sostenere la necessaria tensione, vigilanza e concentrazione,senza provocare irritabilità neurologica ansia o angoscia. Un pasto da proporre prima della gara agonistica dovrà essere composto riducendo al minimo la quota di idrati di carbonio (in media 50 g di pasta, in modo da evitare il rischiodi sedazione, di secondari cali glicemici nel corso della gara e di eventuali fermentazioni intestinali facilitate dal contemporaneo stato di tensione nervosa), mentre la quota proteica dovrà essere più consistente (200-250 g) e le verdure ricche di sali, ma non tali da appesantire la digestione. Durante la gara valgono le osservazione fatte a propositodella reintegrazione idro-elettrolitica. Immediatamente prima di una gara in tarda mattinata, quando il sostegno della colazione può rivelarsi esaurito, una scelta razionale può essere quella di 50 g di parmigiano (corrispondenti al contenuto nutrizionale di circa un litro di latte) e una spremuta di pompelmo, in modo da avere il massimo di sali minerali, energia e tono neurologico con ilminimo impegno digestivo. Negli atleti che costituzionalmente non hanno una tendenza all’ipertensione arteriosa e un sistema nervoso troppo eccitabile, si potrà far impiegare un uovo sodo e 50 g di formaggio francese Gruyer. Quest’ultimo, prodotto secondo metodi biologici come il parmigiano o il pecorino è molto più dolce rispetto alla groviera italiana e, con il suo contenuto in calcio e zuccheri, compenserà l’eventuale eccesso di stimolo surrenalico da parte dell’uovo sodo.

Alimentazione nel giorno di riposo

Dopo aver raccomandato agli atleti di rispettare poche e fondamentali regole generali, è psicologicamente utile lasciare un giorno di libertà alimentare a soggetti che nel corsodella settimana sono sottoposti ad una limitazione notevole della libertà individuale. Infatti, la costrizione psicologica eccessiva e prolungata può ridurre la capacità di resistenza e diconcentrazione di un essere umano. Potrà essere utile, da parte del medico nutrizionista, annotarsi il giorno successivo le scelte alimentari fatte dai singoli atleti, in modo dasopperire ad eventuali eccessi o carenze nutrizionali.

Importanza di una efficiente funzionalità epatica

Il fegato di un atleta merita una particolare attenzione da parte del medico nutrizionista. Infatti quest’organo: deve gestire le necessità energetiche (rapide per gli sport cherichiedono sollecitazione muscolare intensa e di breve durata, prolungate per gli sport di resistenza); deve disporre di adeguata quota proteica per la ristrutturazione conseguente all’usura tessutale dei muscoli, dei tendini e dei legamenti; infine, deve essere aiutato nelle ore notturne per gli indispensabili processi biochimici di glicurono-coniugazione deicataboliti tossici prodotti durante il giorno. Tenendo conto della sollecitazione epato-renale nell’atleta, saranno controindicati tutti quegli alimenti che disturberebbero la funzionalità di questi organi. Per esempio, sarebbedi danno una frittata con gli spinaci, in quanto gli ossalati presenti in questa verdura aggraverebbero immediatamente la funzionalità renale, al contrario di una frittata di cicoria o dicarciofi.

Per quanto riguarda il trattamento bionutrizionale di atleti che abbiano subito danni tendinei o legamentosi, diventa indispensabile proporre alimenti ricchi di collageno e ditessuto di sostegno. Si potranno proporre i nervetti (ormai disponibili in commercio con una certa facilità), la cotica (lessa o fritta in aglio, olio, prezzemolo e peperoncino), la quale contiene collageno ed elastina, il brodo fatto con la punta di petto o l’osso del ginocchio, ecc. In ogni caso bisognerà tener conto della costituzione del soggetto, ricordandoche la lassità o la fragilità dei tendini e delle articolazioni è frequente negli individui che presentano una tendenza alle disfunzioni epato-biliari.

Impiego dei legumi nell’atleta

I legumi sono una categoria di nutrienti di cui l’organismo di un atleta si può giovare, a condizione di proporli di sera quando l’attività sportiva si è svolta di mattina o nei giorni precedenti l’attività agonistica o di allenamento. Saranno indicate soprattutto le associazioni con la pasta, quali pasta e fagioli, pasta e lenticchie o pasta e ceci. All’azione ristrutturante delle proteine del glutine e di quelle vegetali presenti nei legumi (di gran lunga inferiore a quella immediata delle proteine della carne) si sommerà l’effetto sedativodei carboidrati, l’azione tonica del ferro e quello remineralizzante dei sali, il cui eventuale eccesso rispetto alle necessità organiche sarà eliminato attraverso i reni in conseguenzadella diuresi indotta dal lieve stato di iperglicemia (carboidrati presenti sia nella pasta che nei legumi). La proteina vegetale dei legumi, avendo una composizione in aminoacidi notevolmente differente da quella animale, richiederà lavoro e tempo per essere utilizzata dall’organismo. Per questa ragione, non sarà mai indicata nei pasti effettuati dall’atleta ha immediatamente prima o dopo una gara. Inoltre, mentre la carne, per la sua ridotta quota glicidica, non provocherà una sollecitazione pancreatica impropria, i legumi, soprattutto se associati alla pasta, come già detto nel paragrafo precedente, faranno alterare la curva glicemica nel momento sbagliato, quale quello della intensa sollecitazione psico-fisica dell’atleta. Non secondaria è la fermentazione intestinale provocata dai carboidrati dei legumiche disturberebbe la condizione dell’atleta A differenza di altre proteine vegetali, quali quelle contenute nelle verdure e negli ortaggi, la presenza di una significativa quota di carboidrati nei legumi ne permette un piùagevole impiego da parte dell’organismo, che si gioverà della loro maggiore completezza nutrizionale e del lento rilascio dei suoi nutrienti, sfruttati come riserva e non di ostacolo per la funzione renale, come l’eccesso di proteine della carne ricche di purine e di altre scorie azotate. Se in previsione o dopo una gara agonistica la proteina animale è insostituibile per la sua immediatezza e facilità di utilizzazione, nei periodi di allenamento i legumi con la pastapossono essere proposti con maggiore disinvoltura, con il vantaggio di essere pasti semplici e completi. Infatti, mentre nella fase del massimo agonismo l’ansia di prestazione e la tensione nervosa inducono un impiego esasperato e senza risparmio del corpo, nessun atleta in allenamento solleciterà l’organismo in modo improprio e quindi non provocherà quelle condizioni ai limiti del patologico che, come abbiamo detto, rendono controindicati i legumi.

Il maratoneta ed il centrometrista

In conclusione, ricapitoliamo le notevoli differenze bionutrizionali tra atleti praticanti due sport differenti per tipo ed entità di impegno psicofisico. Normalmente la struttura e la massa muscolare del maratoneta è meno imponente rispetto a quella del centometrista, al quale sono richiesti rapidità, scatto e potenza, rispetto alla capacità di resistenza del primo; entrambi hanno bisogno di una importante quota proteica ma, mentre nel maratoneta la necessità si esprime con un ritmo costante e progressivo, nel centometrista la perditadi sostanza muscolare è immediata, in quanto la sollecitazione estrema provoca microlesioni acute delle fibrocellule muscolari. Il maratoneta avrà bisogno di zuccheri rilasciati con maggiore lentezza, mentre il centrometrista si gioverà di glicidi immediatamente biodisponibili, pena la formazione di acido lattico e l’indurimento delle masse muscolari. Al primo si darà come colazione pane, prosciutto e formaggio, realizzando un’associazione che coniuga proteine animali superiori con quelle del formaggio, ricco di zuccheri a lento rilascio, di calcio ed altri elettroliti utili per la gara di resistenza. Al centrometrista si proporrà pane, burro e marmellata, allo scopo difornire una maggiore quantità di zuccheri, relativamente frenati dai lipidi del burro. A partire dalle considerazioni precedenti, si programmeranno gli altri pasti in modo adeguato. Controindicazione assoluta per entrambi è l’associazione del formaggio con una proteina ricca di purine, quale quella della bresaola. Infatti, il risultato immediato sarebbe unaimbibizione tessutale e cerebrale con riduzione della lucidità e della vigilanza, oltre ad un vago senso di malessere generale. In questo caso l’unico antidoto efficace è l’ingestione diuna fetta di limone senza zucchero (già presente nel pane, nel formaggio e nella stessa bresaola), che riattiva il fegato e permette la catabolizzazione delle scorie azotate.

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Società Stampa Sportiva - SCIENZE MEDICHE. MEDICINA

Endocrinologia dell’esercizio fisico - 1999 - Cappa Marco - UTET - SCIENZE MEDICHE.

Fisiopatologia medico-sportiva - 1986 - Pelliccia A, Venerando A. - MASSON ITALIA, Milano

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Nutrizione

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Bioterapia Nutrizionale nelle disfunzioni gastroduodenali

Bioterapia Nutrizionale nelle disfunzioni gastroduodenali

Introduzione

I disturbi della funzionalità gastrica e duodenale costituiscono il banco di prova più severo ed impegnativo per il medico nutrizionista che utilizzi gli alimenti come strumento terapeutico di guarigione. Nei pazienti affetti da patologie di questo tratto dell’apparato digerente, una diagnosi etiologica precisa faciliterà la strategia nutrizionale e permetterà di operare le scelte più idonee. Non solo, ma in questo capitolo, più che negli altri, si vedrà come la digeribilità di un alimento dipenderà dal modo in cui verrà proposto, traducendosi immediatamente in miglioramento o peggioramento della sintomatologia. Essendo il sistema digerente un tutto unico con le sue ghiandole ed i suoi annessi, è evidente che un disturbo ad un qualsiasi livello, si manifesterà con sintomi a monte e a valle dello stesso. Per esempio, avremo la bocca pastosa e patinosa in caso di stipsi, la diarrea gialla nei disturbi del pancreas, le feci scomposte e ipercromiche nelle discinesie biliari o la bocca amara nelle difficoltà epatiche. Non è infrequente trovare una disfunzione del fegato o del pancreas all’origine di molte gastralgie, che potranno essere risolte soltanto con adeguati trattamenti bionutrizionali direttamente mirati a risolvere i fattori causali. Una riflessione particolare merita l’ipotesi etiologica delle gastriti da Helicobacter pylori, che negli ultimi anni ha entusiasmato molti gastroenterologi ed ha contribuito a rendere esageratamente frequente sia la prescrizione di antibiotici che la pratica, non sempre priva di conseguenze, della gastroscopia. Poiché in Medicina l’unica vera diagnosi etiologica è stata ed è, tutt’ora, quella infettiva, dopo aver rinvenuto il suddetto microrganismo nello stomaco di pazienti gastropatici, si è ritenuto, a nostro avviso semplicisticamente, di aver trovato la terapia risolutiva mediante un trattamento antibiotico. In effetti, oggi, la frequenza delle recidive nei soggetti trattati, oltre agli effetti collaterali dei farmaci impiegati, ha indotto a qualche ripensamento.

Alla luce dei risultati conseguibili in questa patologia con la Bioterapia Nutrizionale, è ragionevole supporre che l’Helicobacter pylori possa costituire un ospite abituale della mucosa gastrica, magari utile come tanti altri microrganismi saprofiti del lume intestinale. Quando poi, per una qualsiasi ragione, si verifica uno stato cronico di congestione, irritazione o lesione della parete gastrica, si creano le condizioni ideali per una replicazione batterica responsabile del peggioramento della sintomatologia. L’innegabile e momentaneo miglioramento che si ottiene con la terapia antibiotica potrebbe essere conseguenza della riduzione numerica delle colonie batteriche, ma non il risultato della eliminazione delle cause scatenanti la patologia. Non intervenendo, quindi, sulle cause reali della patologia, la maggior parte dei pazienti troppo spesso ripresenta la sintomatologia originaria dopo un periodo di tempo variabile da individuo ad individuo. In linea con la filosofia di questo volume introduttivo alla Bioterapia Nutrizionale, questo capitolo non tratterà in modo esaustivo le singole patologie gastro-enteriche, ma avrà lo scopo di segnalare e discutere le soluzioni nutrizionali adeguate per i soggetti affetti da queste patologie, fornendo indicazioni utili per i pazienti e, soprattutto, per il medico. A partire dalla nostra esperienza cercheremo di rispondere ad un quesito assillante che tormenta tutti i gastropatici ed i loro medici: che cosa mangiare o evitare quando c’è il mal di stomaco?

Su questo argomento esiste in letteratura una notevole confusione, ragion per cui, spesso, il medico è costretto a somministrare cronicamente dei gastroprotettori, degli antiacidi o degli inibitori delle cellule antrali produttrici di acido cloridrico, senza però risolvere mai alla radice il problema del suo paziente, costringendolo, perciò, ad una alimentazione, cosiddetta “in bianco” molto restrittiva e spesso poco gratificante. In realtà, non basta individuare le categorie alimentari che devono essere rigorosamente evitate in fase acuta di malattia, ma è necessario conoscere le notevoli differenze bionutrizionali che caratterizzano i singoli quadri patologici e l’adeguata associazione di cibi che non determini ulteriore irritazione delle mucose, permettendo l’azione dei fisiologici, spontanei e naturali processi riparativi. La prima stazione di permanenza del cibo, dopo la cavità orale è lo stomaco. Qui, gli alimenti, preventivamente elaborati dai processi di masticazione e sottoposti ad una predigestione ad opera degli enzimi salivari, vengono scissi e indirizzati verso il loro specifico destino metabolico. Ogni alimento ha un suo individuale percorso digestivo che bisogna conoscere per organizzare una efficace Bioterapia Nutrizionale nei disturbi e nelle patologie degli organi deputati alla digestione. L’alcool, ad esempio, viene direttamente assorbito dalla parete dello stomaco e, in pochi secondi, passa nel sangue; anche gli zuccheri hanno un transito gastrico abbastanza veloce, in quanto sono sostanze chimicamente semplici, ma spesso sono responsabili di bruciori gastrici o di vere e proprie gastralgie poiché stimolano la produzione di acido cloridrico; le proteine, invece, devono essere attaccate e destrutturate in molecole più semplici come gli aminoacidi; i grassi, infine, sono nutrienti che richiedono una lunga e lenta elaborazione e necessitano di una ottimale e sinergica funzionalità dei succhi gastrici, pancreatici ed epato-biliari.

Gastriti con iperacidità

Cause più frequenti di gastralgie

Le gastralgie possono essere, molto spesso e molto semplicemente, conseguenza di cattive abitudini alimentari che vanno identificate e corrette. L’uso, o, peggio ancora, l’abuso di alcool e di tabacco è responsabile di varie patologie dell’apparato digerente, con meccanismi in parte metabolici ed in parte irritativi, tanto più, nel caso dell’alcool, se la bevanda è di qualità scadente. Allo stesso modo, l’impiego di alimenti troppo caldi o troppo freddi e, più frequentemente, l’abitudine di mangiare in fretta, senza masticare adeguatamente, sono sovente alla base dei disturbi gastrici e digestivi . In questo ultimo caso, il cibo non viene predigerito a sufficienza dagli enzimi salivari ma, soprattutto, arriva nello stomaco poco frammentato e richiede più tempo per essere degradato dall’acido cloridrico. Quest’ultimo, perciò, verrà secreto in maggiore quantità, per rispondere alle esigenze del momento, realizzando un’ipercloridria, mentre la maggiore permanenza dell’impasto acido all’interno del lume gastrico finirà per danneggiare il trofismo della mucosa. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che alcune categorie di alimenti, come l’alcool, il caffè, il cioccolato, la menta, alcune spezie e cibi ricchi in grassi idrogenati, possono ridurre il tono dello sfintere esofageo inferiore (SEI); oppure, altri come quelli ricchi in proteine, aumentare il tono del suddetto sfintere. Gli alimenti, invece, molto acidi, ricchi in grassi o ricchi in fibre alimentari a frazione solubile rallentano lo svuotamento gastrico. Al contrario, i cibi ricchi in fibre alimentari a frazione insolubile, come la cellulosa, accelerano lo svuotamento gastrico, mentre le bevande gassate aumentano impropriamente la distensione dello stomaco. Queste conoscenze saranno preziose nell’approntare un intervento di Bioterapia Nutrizionale nelle patologie dell’apparato gastroenterico. Spesso vengono oggi diagnosticate gastropatie iatrogene, sia per farmaci assunti direttamente per via orale, sia per quelli somministrati per altre vie, ma che hanno comunque una ripercussione negativa a livello dello stomaco. I più conosciuti sono l’aspirina, alcune categorie di antinfiammatori non steroidei, alcuni chemioterapici ed i cortisonici veri e propri. Discorso a parte meritano tutte le gastralgie che derivano da disfunzioni epato-biliari e pancreatiche. Dallo stomaco, l’alimento passa nel duodeno, dove viene attaccato dai sali biliari e dal secreto pancreatico. Quando questi meccanismi sono rallentati o non sono adeguati, la permanenza nel lume gastrico si prolunga, generando una sofferenza locale. In queste circostanze è controindicato l’uso di latte e latticini che, dopo un immediato effetto tampone sull’acidità gastrica, provocherebbero un’ipersecrezione gastrinica di rimbalzo per il loro contenuto in calcio e sali minerali. Presentano questo meccanismo etiopatogenetico tutte quelle gastralgie (statisticamente più frequenti) che si manifestano in primavera e in autunno, tormentando il malato per anni fino a trasformarsi in ulcera permanente o esaurirsi misteriosamente ad una certa età: sono le gastralgie da disfunzione epatica sub-clinica che si osservano in soggetti predisposti, il cui fegato si fa “sentire” in questo modo nei cambi di stagione. E’ ovvio, ci sembra, che in queste patologie, né batteriche, né virali, l’intervento farmacologico appaia del tutto ingiustificato, potendosi risolvere il disturbo semplicemente correggendo le modalità di alimentarsi.

Iperacidità

Uno dei disturbi più comuni a carico dello stomaco è l’eccesso di acidità, cui si associano una serie di sintomi che possono variare dal bruciore alla pesantezza, dalla pirosi sporadica ai disturbi da reflusso gastroesofageo, spesso complicato da lesioni della mucosa dell’esofago. Questi fastidi possono essere saltuari o continui, nel qual caso vanno praticate tutte quelle indagini diagnostiche, a partire dalle meno invasive per finire, ove se ne ipotizzi la necessità, con quelle più complesse (indagini ematochimiche, radiografia, gastroscopia, ecc.) che consentano di scongiurare od evidenziare lesioni ulcerative gastroduodenali, processi irritativo-infiammatori cronici della mucosa e patologie neoplastiche. Un luogo comune molto difficile da combattere e sfatare è quello di utilizzare una sostanza alcalina come soluzione terapeutica di urgenza ad una condizione di iperacidità. Poiché nello stomaco il pH è normalmente 2, quando c’è un eccesso di acido si pensa istintivamente a modificarlo con un tampone alcalino; per intenderci, il classico bicchiere di acqua e bicarbonato di sodio, ritenendo che questo possa risolvere il problema. Questa insensata abitudine è responsabile della evoluzione verso forme ulcerative patologiche di tante iperacidità legate inizialmente solo a cattive abitudini alimentari. Si dimentica troppo facilmente che i processi biochimici che avvengono all’interno di un organismo umano non sono paragonabili a quelli che possiamo osservare in una provetta di laboratorio. Quando il pH dello stomaco viene violentemente portato da 2 a 7, infatti, si ha uno stimolo alla peristalsi, con svuotamento immediato, e conseguente illusorio sollievo del bruciore e dell’acidità: la condizione dell’ambiente gastrico, però, non è più fisiologica, in quanto alcalina, ragion per cui le cellule antrali, deputate alla produzione di acido cloridrico, sono stimolate intensamente, ricreando e peggiorando la condizione di partenza. Una soluzione di emergenza, dall’effetto immediato, è quella di utilizzare un alimento molto acido, in piccola quantità relativamente alla quota liquida e, soprattutto, privo di zuccheri. La scelta di un frutto crudo è quanto di peggio si possa fare, poiché la sua acidità è sempre associata ad una importante percentuale di acqua e di fruttosio; quest’ultimo, in ambiente acido, produrrebbe una immediata fermentazione con gonfiore gastrico, pericolo di eruttazioni acide e, in ogni caso, aumento del dolore. Il succo di limone puro, invece, nella quantità di due-tre cucchiai da tavola, è sufficiente per aumentare l’acidità dello stomaco quel tanto che basti a provocare una contrazione con svuotamento verso il duodeno, dove i bicarbonati pancreatici provvederanno a tamponare efficacemente il pH. La differenza rispetto all’uso del bicarbonato di sodio consisterà nel fatto che l’ambiente dello stomaco rimarrà moderatamente acido e le cellule HCl-secernenti non saranno attivate in modo improprio come nel caso precedente. E’ evidente che questa è una soluzione momentanea di emergenza, utile durante un episodio occasionale. Allo stesso modo può tornare utile assumere il succo di mezzo pompelmo spremuto.

Modalità di cottura nelle gastriti

Prescindendo per ora dagli alimenti più o meno indicati in caso di gastralgie, è fondamentale comprendere come la modalità di cottura incida in modo significativo sulla digeribilità, fattore importantissimo nelle patologie gastriche, nelle quali la difficoltà si traduce immediatamente in un peggioramento della sintomatologia. Si vedrà come uno stesso alimento possa costituire fonte di benessere generale se proposto cotto e di dolore gastrico se ingerito crudo, o viceversa.

Minestroni - Chiunque abbia avuto una indisposizione gastrica con iperacidità o vomito sa, per esperienza diretta, che l’ingestione di liquidi peggiora immediatamente le sue condizioni. A nostro avviso, infatti, l’uso dei minestroni, in queste condizioni, è rigorosamente proibito, mentre spesso tali preparazioni vengono consigliate come alimenti preferenziali, altamente digeribili, senza dare poi il risultato che ci si aspetta. Le pietanze con liquidi in eccesso, i brodi, soprattutto di carne, e i minestroni dovranno essere banditi dall’alimentazione di un gastropatico. Il brodo di carne, da solo, costituisce un potente stimolatore della secrezione di acido cloridrico, mentre i minestroni di verdure hanno un contenuto in cellulosa che, insieme con l’imbibizione generale, provocherebbe un’ eccessiva stasi nel lume gastrico, con aumento della sofferenza. In generale, quanto più un alimento è asciutto e destrutturato dalla masticazione, tanto più facilmente sarà attaccato e degradato dai succhi enterici, con sensazione di leggerezza e riduzione dei tempi digestivi. Infatti, la stessa pasta o riso saranno tanto più digeribili, quanto più la loro cottura sarà al dente, condizione che presuppone una minore esposizione all’acqua di bollitura, con conseguente minore imbibizione liquida da parte sia della pasta che del riso stesso: pasta e riso, passati di cottura, rappresentano un alimento più difficilmente aggredibile dai succhi gastrici a causa di un’eccessiva percentuale d’acqua assorbita. Molte sono le persone che hanno sperimentato quanto dolorosa e difficile sia l’indigestione d’acqua. E’ un errore, quindi, credere che quanto più la pasta o il riso siano cotti, o addirittura scotti, tanto più essi siano digeribili. Al contrario, tanto più saranno al dente, tanto più richiederanno una masticazione prolungata che predigerirà l’alimento avviandolo ad una migliore utilizzazione nello stomaco. A volte ci troviamo a dover affrontare dei vomiti di una certa entità, che coesistono con una sete incoercibile nell’impossibilità di bere, pena la ripresa dei conati di vomito. In questi casi, l’unica soluzione possibile, in attesa del miglioramento gastrico, è quella di inumidire continuamente la mucosa orale con un sorso d’acqua, addizionata di poche gocce di limone, ma senza deglutirlo ed eliminandolo dopo pochi secondi, in modo da realizzare uno spegnimento dell’arsura ed un assorbimento diretto dei liquidi, lento e graduale, da parte della suddetta mucosa, senza coinvolgere lo stomaco.

Alimenti lessi - A parte alcune eccezioni, quali la zucchina, il finocchio e la lattuga bolliti, conditi con olio extravergine d’oliva e aceto, di solito ben tollerati dai gastritici, gli alimenti bolliti presentano le stesse controindicazioni precedentemente citate. Molte verdure, infatti, a causa della cottura in acqua, manifesteranno una maggiore biodisponibilità dei loro zuccheri, con aumento dei fenomeni fermentativi all’interno del lume gastrico; così come, tutti gli alimenti imbibiti di olio (verdure trifolate) o di altri lipidi, (grassi di maiale, ad esempio, presenti nelle patate cotte al forno insieme con le salsicce) rallenteranno lo svuotamento gastrico e provocheranno un peggioramento della sintomatologia clinica.

Alimenti ripassati e in pastella - Molte verdure a foglia, improponibili crude, saranno tollerate quando verranno proposte ripassate in padella con olio extravergine d’oliva, aglio e peperoncino. L’eliminazione totale della quota idrica presente nelle verdure bollite, operata dalla frittura, insieme con lo stimolo colecistico dell’olio bollente, presente in quantità modesta, rende accettabili al gastritico molti alimenti proposti secondo questa modalità nella quale il peperoncino, usato con moderazione, stimolerà le capacità digestive.

Anche la cottura in pastella presenta alla mucosa gastrica un alimento disidratato e scarsamente imbibito dall’olio d’oliva, in virtù della pellicola protettiva realizzata con l’involucro di pastella. Per la stessa ragione, vedremo come la carne, notoriamente dotata di azione stimolante la mucosa gastrica, e perciò irritante, diviene molto più digeribile quando viene proposta panata, secondo una modalità di cottura abbastanza simile alla pastella.

Alimenti fritti - Ad eccezione di casi clinici particolari e di alimenti controindicati per loro specifiche caratteristiche, il fritto come modalità di cottura ha tutti i requisiti per essere indicato in caso di difficoltà della funzionalità gastrica. L’alimento fritto subisce uno shock termico violento ma di breve durata, che non altera le sue strutture interne, in virtù della pellicola lipidica di protezione che si forma appena viene immesso in olio extravergine d’oliva bollente. La stessa pellicola evita la penetrazione dell’olio in profondità, per cui l’imbibizione lipidica è ridotta al minimo e, per l’elevata temperatura, la perdita della quota di acqua è totale.

Alimenti fritti-dorati - Se il fritto è generalmente indicato, non così il fritto-dorato. Infatti, la presenza dell’uovo a diretto contatto con l’olio bollente condiziona un maggiore assorbimento di olio e la denaturazione delle sue proteine, con rallentamento dei tempi digestivi. Inoltre, se lo stimolo del fritto viene sopportato dalla mucosa gastrica, che si gioverà della maggiore velocità di svuotamento, il fritto dorato esplica un’azione francamente irritativa e di contrazione energica delle vie biliari. Pertanto, sarà prezioso nei pazienti affetti da ipocinesia delle vie biliari, ma tenderà ad aggravare una gastralgia preesistente.

Frittata - Normalmente la frittata, soprattutto con aggiunta di verdure, costituisce una preparazione alimentare controindicata nelle patologie gastriche. La parte proteica del tuorlo e, soprattutto, dell’albume viene totalmente denaturata dal calore e trattiene buona parte dell’olio di cottura. Se si considera il ruolo negativo svolto dalla cellulosa di una verdura aggiunta (e la complessità strutturale del parmigiano, per chi avesse l’abitudine di aggiungerlo nelle frittate, che diventano, in tal modo, di difficile digestione), si comprenderà il peggioramento della sintomatologia gastrica, secondaria al suo impiego.

Alimenti controindicati nelle gastriti

Esistono alimenti che per loro natura sono dannosi nelle patologie gastriche; altri lo possono diventare se proposti in modo improprio; altri ancora lo diventano solo se associati male o preparati secondo modalità di cottura non idonee. In questo paragrafo ci occuperemo dei primi due gruppi, riservando al terzo una trattazione a parte. In linea generale, quanto più un alimento è completo e conserva l’integrità nutrizionale di cui la natura lo ha dotato, tanto più è complesso e prezioso per la ricchezza del suo patrimonio vitale. Per la stessa ragione, richiederà una efficienza dei meccanismi digestivi, che lo renderanno controindicato nelle gastralgie, dove detti meccanismi sono alterati.

Frutti di mare e uova - Tutti i gastritici cronici sanno, per averne fatto la dolorosa esperienza, che l’ingestione dei frutti di mare in qualsiasi forma provoca una riacutizzazione immediata dalla sintomatologia gastrica, a volte molto grave in quanto le proteine di cui sono dotati sono tra le più difficili da digerire per i cofattori, i micronutrienti ed i minerali cui sono legate. Stessa esperienza negativa si verifica con l’uovo crudo, anch’esso espressione di una potentissima unità vitale completa, la cui componente proteica, come quella della carne cruda, è in grado di esercitare un potente stimolo ipersecretivo a carico della mucosa gastrica. Già l’uovo al piatto (al vapore) o alla coque servito con limone, diventano meno problematici, in quanto si attenua l’azione irritante dell’albume crudo e manca l’imbibizione lipidica da parte dell’olio. L’uovo fritto manifesta in forma ridotta le controindicazioni della frittata e l’uovo sodo è dannoso per la totale denaturazione proteica, per la notevole imbibizione di acqua e per lo sviluppo di solfuri irritanti, dal caratteristico colore verdastro intorno al tuorlo, spesso dovuti ad una impropria cottura a temperatura superiore ai 100° C. Anche l’uovo in camicia presenta una digeribilità minore rispetto all’uovo alla coque o al piatto.

Legumi e funghi - I legumi costituiscono delle unità vitali complete, ricche di proteine vegetali e di zuccheri complessi. Normalmente il gastropatico mal li sopporta, meno che mai quando sono associati con la pasta, in quanto si avrebbe un potenziamento dei fenomeni fermentativi per l’eccesso di carboidrati, aggravati dal rallentamento digestivo causato dai due tipi di proteine vegetali, che hanno processi digestivi diversi: quelle dei legumi e quelle della pasta rappresentate dal glutine. Molto meglio riso e legumi, per una donna gravida, per esempio, affetta da iperacidità, in quanto l’eccesso di zuccheri non si somma alla varietà di proteine, ovviamente a condizione di non associare una proteina animale nello stesso pasto. Anche i funghi sono una categoria di alimenti proibiti in corso di gastralgia, per la loro ricchezza in proteine vegetali e per la micosina, una specie particolare di cellulosa indigeribile ed aggressiva a carico delle mucose gastro-duodenali. Inoltre, il loro contenuto in ferro potenzia ulteriormente l’effetto irritante.

Latte e latticini - Mentre i formaggi e i latticini sono alimenti proibiti nelle gastriti iper-acide, il latte spesso è ben sopportato, a condizione che sia freddo e che non venga proposto in fase acuta. Il latte, infatti, se caldo, nell’ambiente acido dello stomaco tende a cagliare, formando un grosso coagulo, che rischia di aumentare l’acidità, per l’ipersecrezione gastrinica provocata dal contenuto in calcio, e di bloccare la progressione verso il duodeno, per la difficoltà ad essere destrutturato a causa anche della ricchezza in grassi. Un modo gradevole di predigerire questo prezioso alimento è quello di farlo assumere aggiungendo qualche goccia di limone o una modica quantità di succo d’arancia e di proporlo a temperatura ambiente, in modo da non creare ulteriore congestione della mucosa infiammata con temperature troppo calde o fredde. Solo nelle ulcere duodenali si crea un meccanismo pancreatico di digestione dei lipidi del latte che rende questo alimento utile per tamponare in alcalino l’eccesso di acidità. Discorso a parte merita il Parmigiano Reggiano, che costituisce l’unico formaggio che, per il rigoroso e rigido disciplinare che ne regola i procedimenti di caseificazione (essendo prodotto da latte esclusivamente di pascoli selezionati e cagliato da caglio esclusivamente animale, derivante da stomaco di agnelli che non hanno mai assunto altro che latte materno), racchiude in sé tutti gli enzimi delle iniziali e primitive attività digestive, ragion per cui è di giovamento nelle patologie gastriche.

Antiossidanti - Una considerazione specifica riguarda gli alimenti ricchi di sostanze antiossidanti, come peperoni, melanzane, kiwi, melograni e tutti i frutti di bosco. Per il loro potere di liberare la tossicità tessutale, aumentandone la quota circolante, questi alimenti impegnano intensamente la funzionalità epatica e renale e aggravano la condizione metabolica già precaria del paziente gastropatico. Un’azione irritante diretta a carico delle mucose digestive viene poi svolta dalla vitamina C contenuta in percentuali variabili, dal ferro e da altre sostanze ad azione eccitante di cui tutti questi frutti sono ricchissimi, quali acidi organici ed antociani . Particolarmente controindicate nelle gastriti iperacide con rischio di lesioni ulcerose, sono le fragole che possono favorire o far aumentare il sanguinamento, a causa della loro azione fluidificante e dei loro salicilati, oltre ad avere un’ azione irritante per il loro contenuto in ferro e vitamina C. Ovviamente, per i motivi che le rendono pericolose nelle gastriti iperacide saranno invece preziose nelle gastriti atrofiche, condizioni cliniche che richiedono una stimolazione della produzione di acido cloridrico, ed un effetto antinfiammatorio esplicato dai suddetti salicilati.

Verdure - Le verdure crude in generale sono mal sopportate dai gastritici, sia per l’azione negativa svolta dalla loro cellulosa sulla parete gastrica, sia per l’acqua di vegetazione che contengono; inoltre, la presenza di specifici nutrienti, quali il ferro contenuto nel radicchio, nell’indivia belga, nella scarola, nel carciofo crudo e negli spinaci, o la sedanina e lo iodio contenuti nel sedano, o gli antociani del cavolo cappuccio rosso e del ravanello, o la solanina del pomodoro verde, rappresenta un’ulteriore aggravio delle funzioni digestive . Sconsigliabili sono, allo stesso modo, altre crucifere come verza, broccoli, broccoletti e rucola, per il loro contenuto in iodio, zinco, rame e per il loro stroma compatto. Fa eccezione, invece, il cavolo cappuccio bianco (tipo alba) che, per la sua ricchezza in gefarnato, mangiato crudo o centrifugato, stimola lo stomaco a produrre muco protettivo. In quantità variabile, tutte le verdure contengono cellulosa. Questa è una struttura glicidica complessa che svolge un’azione irritativa a carico delle mucose del tratto digerente, tanto da essere sfruttata efficacemente in caso di stitichezza. Essendo composta di zuccheri, la sua destrutturazione è laboriosa, quindi aggrava il paziente gastropatico. Le verdure utilizzabili dovranno essere sempre povere in cellulosa e rigorosamente cotte (di solito il paziente sa già per esperienza diretta che le insalate crude peggiorano la sua condizione), in modo da avere una destrutturazione marcata di questa sostanza stromale, che viene trasformata in zuccheri semplici più assimilabili.

Alimenti ricchi di zuccheri - Fra tutti gli alimenti, quelli zuccherini sono certamente i peggiori nemici nella gastrite. In fase acuta devono essere evitati totalmente, poiché in ambiente acido provocano immediata fermentazione, distensione del lume e aumento dell’intensità del dolore. Questo meccanismo negativo viene potenziato dall’assunzione di alimenti molto ricchi in zuccheri semplici e contemporaneamente acidi, come la frutta cruda. Ricordiamo l’effetto negativo dell’uva, su molti soggetti anche non francamente gastritici, con la sua alta percentuale di acqua, dolce ma estremamente acida; delle ciliegie ricche di ferro, fruttosio e acidi organici; della mela cruda, la cui fermentazione può provocare rigurgiti acidi e distensione gastrica; dell’ananas che, in virtù del suo contenuto in bromelina, svolge un’azione proteolitica a carico della mucosa infiammata, peggiorando il quadro clinico; dei kiwi si è già detto a proposito degli antiossidanti, anche se, per la loro ridotta percentuale di fruttosio, sono proponibili appena le condizioni cliniche del paziente saranno migliorate; infine ricordiamo la pesca, il melone, il cocomero, i mandarini e tutti gli altri frutti che associno il loro contenuto zuccherino ad un certo grado di acidità. L’amido del riso o delle patate è già uno zucchero più complesso che può essere impiegato a condizione di non eccedere nella quantità e di non proporlo sotto forma di patate bollite, riso bollito o minestrone di riso. I cibi dovranno essere asciutti in modo da assorbire la maggiore quantità possibile di succhi gastrici ed essere degradati e digeriti nel più breve tempo possibile. Infatti, la patata bollita, in particolare quella a pasta bianca, per la sua struttura diversa da quella a pasta gialla, che adsorbe meno acqua durante la bollitura, è capace di provocare una gastrite perfino nelle persone sane. Anche la patata al forno è controindicata, se cotta insieme a carni, pesce, aglio o erbe aromatiche, in quanto questo tubero ha la proprietà di adsorbire e trattenere tutte le sostanze, dai grassi della carne, all’olio extravergine d’oliva, agli oli essenziali delle erbe aromatiche, presenti in tutti gli altri alimenti che gli vengano associati durante la cottura, diventando così un alimento molto più complesso da digerire. La patata cotta in forno con solo olio extravergine d’oliva e sale è invece altamente digeribile.

Proteine - Si conosce la forte azione di stimolo alla secrezione di acido cloridrico provocata soprattutto dalla carne rossa, che sarà evitata anche per il suo contenuto in ferro. Poiché le proteine della carne sono fondamentali per riparare e ristrutturare l’integrità della mucosa gastrica lesa, più avanti vedremo come rendere questa importante categoria di nutrienti accettabile per uno stomaco sofferente. In questa sede segnaliamo l’effetto negativo della carne proposta secondo tagli e modalità di cottura sconsigliabile nelle patologie gastriche. L’hamburger, ad esempio, sarà difficile da digerire, rispetto ad un qualunque altro tipo di preparazione, in quanto composto da parti derivanti da diversi distretti muscolari, per di più ricchi di grassi; subisce una prima denaturazione proteica già durante la triturazione, sia ad opera del surriscaldamento meccanico che della pressione di espulsione cui viene sottoposto, ed una seconda ad opera della cottura stessa . La bistecca, che nella parte centrale conserva una quota significativa di liquidi interstiziali è molto più digeribile della carne bollita, notevolmente impoverita dei suoi nutrienti andati in soluzione nel brodo, imbibita e denaturata nelle proteine, ad opera della lunga permanenza in acqua bollente; infine, la carne cruda, o carpaccio, sarà da evitare in quanto anch’essa presenta difficoltà digestive, a meno che non venga predigerita con succo di limone. Per l’azione di stimolo della funzionalità tiroidea, svolta dallo iodio in essi contenuti, i pesci sono normalmente controindicati in corso di gastrite iperacida ed ulcera gastrica in fase acuta. In corso di miglioramento del quadro clinico, il pesce dovrà essere proposto secondo quelle modalità di cottura che lo rendono più digeribile e meno irritante per la mucosa gastrica. In particolare, sarà evitato il pesce bollito che, pur avendo perso in diluizione una parte dello iodio e dei sali, presenta proteine imbibite e denaturate dall’acqua di bollitura e perciò più difficili da digerire. Anche il pesce al sale conserva nella sua struttura una parte dell’acqua, in quanto il calore fa cristallizzare il sale in superficie, formando una crosta che impedisce la disidratazione delle zone profonde. Ma questa componente acquosa è totalmente diversa da quella acquisita con la bollitura, essendo fisiologicamente legata a tutte le componenti organiche proprie del pesce e funzionale all’utilizzazione delle stesse, ragion per cui il pesce al sale è più digeribile di quello bollito che solitamente viene ritenuto più leggero. Il pesce al cartoccio è poco digeribile, in quanto trattiene sì tutta la sua acqua biologica e conserva al massimo la sua ricchezza nutrizionale, ma questa, addizionata agli oli essenziali degli aromi che si usano come condimento, finisce per rendere laboriosa e complessa la digestione di un paziente gastropatico. Nei paragrafi successivi vedremo le modalità corrette di utilizzo del pesce in questo tipo di patologie.

Lipidi - La loro complessità strutturale provoca una lentezza digestiva che non è certo utile nelle patologie gastriche, soprattutto quando i processi di cottura li rendono saturi, quando sono di cattiva qualità e tutte le volte in cui nello stesso pasto siano presenti in quantità eccessiva. Devono, perciò, essere evitati o ridotti al minimo i grassi animali cotti, a differenza di quanto avviene per alcuni lipidi insaturi, quali quelli dell’olio extravergine d’oliva o di frutti ricchi di grassi come la papaia o l’avocado.

Bevande e altri – Oltre ai funghi, alla patata bollita, all’ananas,alle vongole, alle cozze e soprattutto alle ostriche, che devono essere letteralmente banditi dalla tavola di un malato di stomaco, è preferibile non utilizzare caffè, particolarmente nella fase acuta. Stesso discorso vale per le bevande gassate e molto zuccherine, come Coca Cola ed affini. Sarebbe opportuno ridurre contemporaneamente il numero delle sigarette nei soggetti fumatori, a causa dell’azione tossica ed eccitante del catrame e della nicotina. Per la stessa ragione, e per la percentuale di acqua, il tè non viene gradito dal malato gastrico; lo stesso orzo, come bevanda, si rivela di solito irritante a carico della mucosa, forse per l’alterazione subita durante il processo di tostatura, a differenza del suo impiego come cereale, che invece svolgerebbe un effetto lenitivo. La camomilla può essere utilizzata nelle gastralgie soltanto se non zuccherata e se assunta a piccoli sorsi non troppo ravvicinati; stesse indicazioni per la tisana di alloro, che riduce la fermentazione gastrica e facilita i processi digestivi.

Alimenti ad azione terapeutica nelle patologie gastriche

Peperoncino - A prima vista l’impiego del peperoncino nelle gastralgie e nelle ulcere sembrerebbe sconsigliabile, dato il bruciore che provoca a carico delle mucose. In realtà, nel paziente che non è abituato al suo utilizzo, il bruciore si limita, di solito, alle mucose della bocca. Nella nostra esperienza lo utilizziamo abbondantemente in queste patologie, compresi la gastrite atrofica, il reflusso gastro-esofageo e le ulcere gastriche e duodenali, per una serie di valide ragioni. In primo luogo, il peperoncino svolge un’azione eupeptica, cioè facilita e velocizza tutti i processi digestivi. E’ un cicatrizzante molto efficace, poiché provoca una vasodilatazione associata ad azione revulsiva locale, con arrivo di una maggiore quantità di sangue (che ha un pH alcalino), e quindi di tutti i fattori di difesa e di riparazione tessutale. Infine, la capsaicina ha un’azione antibatterica documentata, utilissima per impedire la proliferazione dell’Helicobacter pylori nelle forme ulcerose. Per queste ragioni, il peperoncino si rivela utile in tutte le patologie gastriche, dalle gastriti ipertrofiche a quelle atrofiche, nelle esofagiti da reflusso, ma anche nelle forme ulcerose, nonostante gli inevitabili timori del paziente, fugati dopo l’immediato beneficio conseguente al suo primo molto preoccupato utilizzo. Studiando nei particolari i trattamenti bionutrizionali per queste patologie, si noterà come l’impiego del peperoncino sia costante ed in tutte le modalità possibili: sulla pasta, sulle verdure, ma anche insieme con il toast al prosciutto crudo, sulle patate bollite condite con olio, sale e, prezzemolo o sedano, a seconda delle indicazioni, o semplicemente su una fetta di pane tostato con dell’olio crudo.

Ortica - Nonostante il suo contenuto in ferro biodisponibile, che potrebbe essere irritante a carico della mucosa gastrica, come accade per altri alimenti ricchi di questo importante micronutriente, l’ortica svolge un’azione cicatrizzante molto efficace in tutte le lesioni irritative ed ulcerative gastro-duodenali. La sua azione revulsiva è tanto più intensa quanto più la cottura è breve; per esempio, è più efficace l’ortica stufata con olio extravergine d’oliva e qualche goccia di limone, che non l’ortica ripassata in padella o utilizzata per confezionare la pasta. Una delle migliori modalità di utilizzo è il riso all’ortica, che associa, all’azione adsorbente del riso sui succhi gastrici, l’azione cicatrizzante, lenitiva ed antianemica dell’ortica, che va aggiunta a cottura del riso ultimata, selezionando solo le foglie e non gli steli. Per prepararlo si pone il riso in una casseruola con aggiunta di cipolla finemente tritata e burro o olio extravergine d’oliva e, solo quando sarà lievemente dorato, si verserà un mestolo alla volta di acqua bollente, lasciando sobbollire a fuoco lento; dopo circa 15 minuti si aggiungerà l’ortica, accuratamente lavata, e si continuerà a cuocere per altri 2 minuti, fino a cottura completa del riso. Altra modalità per sfruttare tutto il contenuto in ferro dell’ortica è rappresentata dal far cuocere il riso in acqua e solo a fine cottura del cereale, si aggiungerà la verdura , sale ed olio extravergine d’oliva. Non è mai opportuno cuocere il riso e l’ortica insieme in quanto quest’ultima, che è molto tenera, cuoce in due o tre minuti; per questa ragione, nei venti minuti circa di cottura del riso, perderebbe la maggior parte del suo potere nutrizionale. Questa seconda preparazione sarà utile in tutte le anemie sideropeniche, nei pazienti in trattamento chemioterapico ed in quelli affetti da calcolosi della colecisti, per i quali è sconsigliabile l’uso dei grassi saturi; l’aggiunta dell’olio extravergine d’olivo o del burro, a seconda delle necessità terapeutiche, verrà in questo caso effettuata a fine cottura del riso. Altra possibile modalità, è quella di far bollire gli steli dell’ortica, privati delle foglie, e cuocere il riso nel liquido ottenuto. A fine cottura del riso, dopo averlo scolato di quasi tutta l’acqua, si aggiungeranno le foglie dell’ortica che cuoceranno per un solo minuto; il tutto verrà condito con burro o olio, a seconda della necessità, e parmigiano. Questa modalità permetterà di sfruttare tutta la quota-parte in ferro e silicio contenuta negli steli, e sarà preziosa sia nelle anemie gravidiche, che nella caduta dei capelli.

Succo di limone - Si è detto dell’azione di beneficio immediato del succo di limone in caso di iperacidità con sintomatologia dolorosa acuta. Un tentativo terapeutico dell’ulcera gastrica è quello di proporre l’assunzione a digiuno al mattino di 4-5 gocce di limone puro diluite in un cucchiaio di acqua e senza aggiunta di zucchero. Gradualmente, e controllando la sintomatologia clinica, si aumenterà il numero delle gocce durante la giornata e nei giorni successivi, fino ad arrivare alla quantità del succo di circa mezzo limone, diluito con acqua, quel tanto che basta da renderlo accettabile al palato, e facendolo bere a sorsi piccoli e ripetuti. Nella maggior parte dei casi, l’azione antibatterica, revulsiva, cicatrizzante ed antiacida del succo di limone permetterà la sterilizzazione della mucosa gastrica lesa ed invasa dall’Elicobacter pylori, ridurrà l’erosione continua operata dall’acido cloridrico endogeno ed attiverà i naturali processi di riparazione tessutale. Parte di queste azioni saranno potenziate dall’impiego costante del peperoncino aggiunto alle preparazioni alimentari, come detto nel relativo paragrafo.

Banana - Mentre la banana molto matura diventa quasi gelatinosa, a causa della trasformazione degli zuccheri complessi in zuccheri semplici, nella polpa di quella ancora relativamente acerba sono contenuti dei principi attivi che svolgono una azione protettiva a carico della mucosa gastrica infiammata, proteggendola dall’effetto corrosivo dell’acido cloridrico e della pepsina. Infatti, la banana attenua gli effetti collaterali di farmaci gastrolesivi, quali l’aspirina ed i cortisonici. Per contro, nei soggetti che abbiano un deficit degli enzimi necessari per digerire la cellulosa presente in questo frutto, si potrà verificare una intolleranza per eccesso di fermentazione.

Papaia - Dal sapore molto dolce, questo frutto tropicale si può impiegare in tutti i disturbi dello stomaco e del duodeno, dalle gastriti alle ulcere gastriche e duodenali. La sua caratteristica nutrizionale principale consiste in alcuni enzimi proteolitici, fra i quali la papaina, di cui è documentata l’azione antinfiammatoria a livello della mucosa gastrica ed intestinale.

Polenta - Per il suo contenuto in lipidi insaturi (5.1 mg%), vitamina E (9.5 mg%), carboidrati complessi a lento rilascio (7.6 gr.%) e proteine ridotte e senza glutine (8.7 gr.%), la polenta di mais può essere impiegata nell’alimentazione di un gastropatico fin dai primi giorni di trattamento, in quanto è di facile digestione, svolge un’azione protettiva a carico della mucosa infiammata e non induce fermentazione come altri cereali, in quanto relativamente povera di zuccheri. La ricchezza in magnesio (210 mg%) la rendono un alimento a spiccata azione antinfiammatoria partecipando, inoltre, all’equilibrio acido-basico, ai fenomeni di ossido-riduzione ed alla permeabilità e respirazione cellulare. Il modesto contenuto in vitamina K contribuisce a favorire, senza eccedere, i processi di coagulazione utili nelle possibili microlesioni dei processi infiammatori della mucosa gastrica.

Lattuga bollita - Insieme all’ortica, la lattuga e la cappuccina sono fra le poche verdure a foglia proponibili bollite ad un gastropatico. Per la loro ridotta percentuale di clorofilla, esse non sono irritanti per le mucose digestive, ma svolgono addirittura una funzione lenitiva, anche per il loro contenuto in vitamina E e in sostanze presenti nel gambo e nella parte lattiginosa della foglia: fra queste il lattucario, un succo amarognolo, che agisce con meccanismi farmacologici simili a quelli dell’oppio (D’Aubergiér), con azione sedativa sull’infiammazione e lenitiva del dolore. Anche i cardi e le coste bianche delle bietole (cioè quelle parti prive di clorofilla) possono essere utili ad un gastropatico, purché somministrate rigorosamente bollite e condite esclusivamente con olio extravergine d’oliva e poco sale.

Alimenti ed associazioni utili nel gastritico

Carboidrati

In un paziente affetto da gastrite iperacida in fase acuta è preferibile escludere frutta cruda ed amidi, utilizzando i carboidrati del pane e della pasta. Quest’ultima, nella quantità di 60 gr. circa nella donna e di 80 gr. nel maschio, dovrà essere al dente e con pomodoro ben cotto, almeno nella prima fase del trattamento bionutrizionale. Si proporrà condita con aglio, olio e peperoncino, oppure all’arrabbiata, scegliendo quella più digeribile (come le tagliatelle) o quella di grosso taglio, che obbliga il paziente alla masticazione, come i rigatoni, le penne ed i fusilli. Per quanto riguarda il pane, si userà preferibilmente solo la crosta o la parte esterna che è più cotta e disidratata, oppure si inviterà il paziente a tostare il pane, in modo da eliminare la quota di acqua della mollica, insieme all’eccesso di lievito, che viene disattivato dal calore. Successivamente, sarà proposto il risotto o il riso all’arrabbiata, oppure una associazione con quelle verdure che indicheremo nel paragrafo successivo. Diversa è la tollerabilità della patata fritta, rispetto a quella lessa, in quanto la disidratazione e lo stimolo epatico esercitato da questa modalità di cottura faciliterà lo svuotamento gastrico. Qualora sia controindicata una azione troppo intensa a carico della contrattilità colecistica, la patata viene tollerata perfino cotta in una minima quantità di olio extravergine d’oliva, senza arrivare alle alte temperature della frittura. In questo secondo caso si verificherà una certa imbibizione dell’alimento da parte dell’olio, ma difficilmente sarà tale da aggravare la funzionalità dello stomaco.

Verdure

Le verdure proponibili in corso di gastrite iperacida e di ulcera gastrica dovranno essere sempre povere in ferro e cellulosa, come già detto nei paragrafi precedenti, e proposte lesse e ripassate in padella, con qualche eccezione. Si è già detto della lattuga, della cappuccina e dell’ortica bollite nel relativo paragrafo, ma anche il finocchio bollito svolge azione lenitiva ed antimeteorica e viene sopportato dalla maggior parte dei pazienti gastropatici. Infatti, dopo la cottura esso diventa più sapido e più zuccherino, con una cellulosa in buona parte destrutturata dal calore. Qualora il paziente manifesti lo stesso una difficoltà digestiva, basterà passare il finocchio bollito con un passapomodoro, per frammentare ulteriormente la fibra; per rendere la preparazione più morbida e vellutata si potrà aggiungere un cucchiaio di maizena: se il finocchio verrà sopportato in questo modo, l’informazione diagnostica sarà quella di evitare con maggiore accortezza tutti gli alimenti ricchi di cellulosa; invece, se anche la vellutata provocherà disturbi, il medico saprà che il suo paziente è maggiormente sensibile al contenuto zuccherino degli alimenti, piuttosto che alla fibra. La zucchina bollita può essere impiegata, a condizione di condirla con olio extravergine d’oliva e qualche goccia d’aceto; quest’ultimo, a differenza del limone, contribuisce ad attenuare quel vago senso di nausea che molti gastritici lamentano come condizione di fondo. L’aceto deve essere rigorosamente di vino e non di mele. Anche la zucchina in pastella viene di solito ben tollerata, perfino se associata con un uovo al piatto, mentre ricordiamo che una frittata di zucchina è totalmente indigeribile in quanto mette in difficoltà prima di tutto lo stomaco e, secondariamente, il fegato. Del carciofo si potrà impiegare il fondo, molto povero in cellulosa, mentre le foglie, che sono lignine e ricche di fibre, andranno accuratamente evitate. Il cavolfiore si proporrà bollito e ripassato e verrà tollerato dal gastritico, poiché è il fiore della pianta e, quindi, è meno ricco di cellulosa rispetto alle foglie o allo stelo di altri vegetali. Delle altre crucifere sarà utile il cavolo cappuccio, che contiene il gefarnato, un principio attivo ad azione antinfiammatoria per le mucose digestive, a condizione di proporlo inizialmente crudo, solo sotto forma di centrifugato, poi molto cotto, schiacciato e privato della parte più costoluta. Con le foglie del cavolo cappuccio si potranno preparare degli involtini di carne, da far cuocere in olio extravergine d’oliva, in modo tale che la parete infiammata dello stomaco venga in contatto prima con i principi lenitivi del vegetale e poi con l’azione eccitante della carne. Anche la verza tenera può essere impiegata, ma con prudenza, tenendo presente la sua struttura più fibrosa ed il suo maggiore contenuto in clorofilla, che si rivela irritante per le mucose digestive. Viceversa, il cavolo cappuccio rosso è sempre controindicato, a causa della sua elevata concentrazione in antociani. Molte verdure ripassate potranno essere associate con il riso, preparando, di volta in volta, riso e lattuga, riso e asparagi, riso e carciofi, riso e indivia riccia, riso e indivia belga, soprattutto nei giorni successivi all’inizio del trattamento bionutrizionale, quando le condizioni del paziente saranno meno acute.

Frutta

Appena le condizioni del paziente permetteranno l’impiego di alimenti con maggiore contenuto glicidico, si inizierà a proporre la frutta cruda più acida e meno ricca di fruttosio come il pompelmo, le fragole, il kiwi; oppure, quella più zuccherina ma privata dell’acidità attraverso la cottura, come la mela cotta, la pesca cotta o le ciliege e le pere cotte. In tutti i pazienti affetti da patologie del tratto prossimale del canale digerente, l’impiego della frutta cotta dovrà essere valutato attentamente dal medico. Infatti, nella gastrite con iperacidità, la frutta cotta sarà controindicata in fase acuta per la fermentazione degli zuccheri resi maggiormente biodisponibili dalla cottura, mentre sarà tollerata dal paziente nelle fasi successive, senza avere una specifica azione terapeuticamente utile sulla patologia di base. Nell’ulcera gastrica, poi, la frutta cotta è controindicata in modo assoluto, in quanto l’apporto di zuccheri farebbe aumentare la carica batterica presente a livello della lesione ulcerosa. Nell’ulcera duodenale, invece, la frutta cotta svolge un ruolo terapeutico, in quanto provoca una attivazione pancreatica con produzione di bicarbonati necessari per tamponare l’acidità del chimo proveniente dallo stomaco.

Proteine

Nella gastrite bisognerà utilizzare le proteine più digeribili e meno irritanti. Un accorgimento da utilizzare è quello della predigestione ad opera del succo di limone, del latte o dell’uovo. Perciò si farà marinare per qualche ora della carne bianca come il petto di tacchino o di pollo, facendola poi cuocere rapidamente in olio bollente. In questo modo le proteine, predigerite, saranno denaturate il meno possibile e quindi non avranno una forte azione irritativa sulla parete gastrica. Altra possibilità è quella di usare carne cruda essiccata come il prosciutto, magari sotto forma di toast, in modo da avere la massima azione adsorbente. Gli straccetti di carne sono tollerati abbastanza bene, in quanto una quota di proteine viene persa durante l’affettatura ed il breve tempo di cottura ne riduce la denaturazione, a differenza della notevole quantità di proteine denaturate presenti nello spessore di una bistecca. Anche la fettina panata può essere tollerata, in quanto il paziente si può giovare del moderato stimolo della frittura, della conseguente disidratazione dell’associazione alimentare e della ridotta denaturazione delle proteine, protette dalla panatura. La carne ai ferri non crea disturbo nei pazienti affetti da ulcera duodenale, mentre potrebbe rivelarsi di difficile digestione e provocare un eccesso di acidità in caso di ulcera gastrica. Infine, il carpaccio di carne è sicuramente meno dannoso rispetto a quello di pesce, a condizione che venga fatto marinare a lungo nel succo di limone. Per quanto riguarda i pesci, proponibili sono la sogliola, il merluzzo e altri pesci bianchi, magari lasciati a macerare nel limone, oppure infarinati e fritti, in modo da ridurre la denaturazione proteica e la rapida biodisponibilità dello iodio, che potrebbe contribuire ad aumentare l’irritabilità gastrica. In ogni caso, il pesce non costituisce una scelta alimentare preferenziale nelle prime fasi del trattamento bionutrizionale, per le ragioni esposte nel paragrafo dedicato agli alimenti controindicati. Per le sue proteine indifferenziate, l’uovo è invece tollerato, a condizione di non essere proposto fritto, sodo o sotto forma di frittata, ma solo, come già detto, al vapore o alla coque.

Lipidi

La limitazione dei lipidi non è assoluta, soprattutto quando non vengano alterati dalla cottura; infatti, il prosciutto crudo, ricco di lipidi insaturi, è un alimento proponibile, e da tutti digeribile senza difficoltà. La carne di maiale anche cotta, opportunamente associata, viene di solito sopportata bene dai gastritici, forse per il suo potere di stabilizzare le oscillazioni della glicemia, e perché tra le più delicate delle carni bianche . L’alimento lipidico per eccellenza è costituito dall’olio extravergine d’oliva, impiegato preferibilmente crudo, in modo da esercitare una funzione protettiva e lenitiva della mucosa gastrica, in virtù del suo contenuto in vitamina E e della sua elevata viscosità, grazie alla quale crea una pellicola protettiva sulla superficie della mucosa digestiva. L’impiego di alimenti fritti con questo olio, molto digeribili perché disidratati, è giustificato quando si ritiene terapeuticamente utile un’azione di stimolo sul fegato, per esempio in caso di stipsi, con miglioramento della sintomatologia gastrica; invece, è controindicato in condizioni di ipereccitabilità ed ipermotilità delle vie biliari, con feci molli ed ipercromiche.

Esempi di dieta nella gastrite ipersecretiva

Nel primo pasto di un paziente con gastrite ipersecretiva, la finalità terapeutica dovrà essere quella di proporre soluzioni bionutrizionali dotate di potere assorbente i succhi gastrici in eccesso, senza aumentare l’irritabilità e l’infiammazione della mucosa. Non è molto indicato, quindi, il toast al prosciutto, se lo si intende classicamente preparato insieme con il formaggio, mentre non provoca difficoltà il pane e prosciutto crudo e l’aggiunta di un finocchio bollito e condito, essendo dotato quest’ultimo di un’azione lenitiva e meno irritante di quello crudo, in virtù della destrutturazione della cellulosa operata dalla cottura. Ovviamente, non sarà indicata la mela cotta, che provocherebbe un eccesso di zuccheri e indurrebbe processi fermentativi, ma si potrà utilizzare mezza papaia, un quarto di avocado o mezza banana. A cena una patata fritta potrà rappresentare la quota di idrati di carbonio ed amidi, meglio se associata a 150 gr. di cavolfiore ripassato, piuttosto che ad una zucchina, in quanto dotato di maggiore potere assorbente e meno ricco di zuccheri. L’eventuale lieve gonfiore gastrico indotto dal bromuro e dallo zolfo del cavolfiore non costituisce una controindicazione al suo impiego; lo stesso zolfo svolgerà un’azione trofica a carico della mucosa, in modo simile a quanto avviene nelle patologie della pelle. Per il giorno seguente potremo utilizzare 50 gr. di pane a bruschetta, una carne panata ed una zucchina in pastella. Si tenga presente che la modalità di cottura di un alimento influisce in modo immediato e significativo sulle condizioni cliniche di questi pazienti. Infatti, la zucchina trifolata sarà meno indicata, in quanto la cottura provocando una discreta imbibizione di olio, finirà col produrre un rallentamento dello svuotamento gastrico in concomitanza di uno scarso potere assorbente i succhi gastrici da parte dell’ortaggio così preparato. Controindicazioni simili si verificano anche per la zucchina marinata, che, pur conservando parte della sua acqua di vegetazione, possiede una significativa quota di olio fritto cui si aggiunge l’azione dell’aceto che stimolerebbe ulteriormente la secrezione dei succhi gastrici. La cottura in pastella invece, limitando la disidratazione del vegetale e riducendo la penetrazione dell’olio nella struttura dell’alimento, sarà più indicata. Qualora fosse necessario potenziare al massimo la capacità assorbente, si taglierà la zucchina a fettine o a listarelle e si passeranno queste ultime nella farina, immergendole in olio bollente e facendole cuocere finché non saranno diventate croccanti. Per la cena potrà essere proposta una scodella di polenta al pomodoro, una carota fritta ed un petto di pollo al limone. Il terzo giorno si potranno utilizzare a pranzo 70 gr. di pennette all’arrabbiata, 70 gr. di prosciutto crudo ed una banana non troppo matura (per non avere una eccessiva biodisponibilità degli zuccheri); mentre per la a cena si potranno vantaggiosamente usare riso ed asparagi, un uovo al piatto e mezza papaia Il quarto giorno a pranzo: 70 gr. di rigatoni burro e parmigiano, 150 gr. di stracceti di carne con prezzemolo, aglio e olio, un fondo di carciofo al tegame e mezza banana; per la cena, (invece,) di nuovo polenta al pomodoro, associata a 140 gr. di lombata di maiale in padella con olio e sale, 150 gr. di cavolfiore ripassato con aglio e olio e mezza mela. La polenta è un alimento molto utile in quasi tutte le gastralgie perché a bassissimo contenuto in glutine ed ad altissimo potere assorbente e lenitivo.

Ulcera gastrica e duodenale

Molte osservazioni circa l’ulcera gastrica sono state già esposte nei paragrafi precedenti. In questa sede aggiungiamo qualche precisazione e delle differenze di trattamento bionutrizionale rispetto all’ulcera duodenale. In entrambi i casi le scelte bionutrizionali si ripercuoteranno immediatamente a carico della sintomatologia clinica del paziente. L’antro gastrico rappresenta il primo luogo di ristagno del bolo alimentare, dopo la cavità orale. Pertanto, le caratteristiche dell’alimento ancora non sufficientemente destrutturato impongono delle scelte precise per non peggiorare il quadro clinico; per esempio, fra le proteine nobili bisognerà impiegare con attenzione quelle del pesce e si farà una selezione delle verdure, proponendo quelle meno ricche di cellulosa e di acqua di vegetazione. Nell’ulcera duodenale le esigenze sono completamente diverse, in quanto l’alimento che arriva è stato già predigerito e solo il suo intrinseco grado di acidità può influire sulla irritabilità della mucosa lesa. Lo scopo della terapia sarà quello di proporre soluzioni nutrizionali che non facciano diventare il chimo troppo acido ma, soprattutto, bisognerà far aumentare la produzione pancreatica di bicarbonati, in modo da abbattere rapidamente l’eccesso di acidità proveniente dall’alto del tubo digerente. Per influire sull’attività pancreatica bisognerà impostare la terapia nutrizionale in modo diverso da quanto si fa in caso di disfunzione del pancreas endocrino. Non per niente, in caso di scarsa produzione di insulina, con squilibrio glicemico e tendenza all’acidosi metabolica, il pH urinario diventa francamente alcalino, ad espressione di una ridotta produzione di bicarbonati, che non hanno tamponato gli acidi organici. Perciò bisognerà aumentare la percentuale degli idrati di carbonio della pasta e del riso, che in questo caso non aggraveranno il quadro clinico come avviene nell’ulcera gastrica. Sarà meno indicata la frutta cruda, sia per il suo grado di acidità, sia per il suo contenuto in fruttosio, che stimola meno la produzione endocrina dell’insulina, mentre saranno di giovamento la mela cotta, la pera o la pesca cotta e perfino le ciliegie o le prugne cotte. Per la stessa ragione, il latte intero fresco sarà di giovamento in caso di ulcera duodenale, mentre non sarà proponibile nell’ulcera gastrica in fase acuta, che peggiorerà anche con la frutta cotta, a differenza di quanto avviene in caso di semplice gastrite. Si ridurrà al minimo indispensabile l’apporto proteico, in particolare delle proteine del pesce, mentre quelle della carne potranno essere proposte in associazione con la pasta, per esempio sotto forma di ragù ma non nella modalità dei tortellini, i quali hanno un impasto complesso con parmigiano, uovo e carni di natura diversa, già preventivamente cotte, e che subiscono un’ulteriore denaturazione delle proteine e degradazione dei nutrienti ad opera della bollitura per la cottura definitiva.

Esempio di dieta nell’ulcera gastrica

Mentre nella gastrite con iperacidità la maggior parte della mucosa dello stomaco presenta uno stato infiammatorio più o meno grave, in caso di ulcera gastrica le lesioni saranno più acute e distruttive, ma anche più distrettuali, per cui la capacità digestiva del paziente sarà meno compromessa, a condizione di proporre le giuste associazioni alimentari. Per esempio, saranno indicati dei pasti complessi come i bucatini all’amatriciana con peperoncino, preparazione ritenuta erroneamente di difficile digestione, che viene sopportata dal paziente affetto da ulcera gastrica senza particolari problemi, magari con aggiunta di due carote fritte o della zucca fritta con aglio, per sfruttare l’azione cicatrizzante della loro vitamina K e quella antibatterica dell’aglio; quest’ultimo riduce anche la concentrazione degli zuccheri per il suo contenuto in oli essenziali. Si eviterà, comunque, l’impiego della frutta cotta, che, avendo perduto ad opera della cottura quasi completamente l’acidità propria degli acidi organici del frutto, presenterà, sempre ad opera dell’innalzamento termico, incremento del contenuto in zuccheri aggravando, perciò, la reattività della mucosa dello stomaco. A cena si potranno proporre una scodella di polenta in bianco condita con olio extravergine d’oliva, 150 gr. di cavolo cappuccio o la verza ripassate in padella e mezza banana a media maturazione. Il giorno seguente si utilizzerà a pranzo di nuovo una pasta complessa come i rigatoni alla norcina, preparati facendo cuocere in padella una salsiccia di maiale sbriciolata (in poca acqua che evaporerà, dando tempo alla carne di maiale di liberare i propri grassi, e senza sfumare con il vino, che la renderebbe molto meno digeribile), con la quale si condirà la pasta, senza aggiunta di panna. Come contorno si ripeterà il cavolo cappuccio ripassato, in virtù della sua azione lenitiva per il suo contenuto in gefarnato. A cena 80 gr. di spaghetti aglio, olio e peperoncino o all’arrabbiata ( raccomandando al paziente di masticare bene soprattutto gli spaghetti, per effettuare una corretta predigestione degli idrati di carbonio) associati a 150gr. di bieta o ad una lattuga ripassata in aglio, olio e peperoncino e mezzo avocado. Il terzo giorno si potrà prescrivere una parmigiana di zucchine, di cui sfrutteremo l’azione miorilassante propria del potassio. Di cui questo vegetale è ricco,associata all’azione antiemorragica del calcio contenuto nel parmigiano. Può essere indicata, però, anche pasta burro e parmigiano, in quanto il burro crudo non ha le stesse controindicazioni di quello che subisce le modificazioni strutturali della cottura; inoltre, i lipidi insaturi hanno un potere ristrutturante, terapeuticamente utile in caso di lesioni della mucosa gastrica, che si associa a quello antiemorragico del parmigiano. In base a queste osservazioni, saranno proponibili anche gli asparagi al burro come contorno e tre mandarini come frutta. A cena si comporrà il pasto con riso e lattuga, 2 carciofi bolliti e mezza banana.

Esempio di dieta nell’ulcera duodenale

a) Riso e spinaci, 60 gr. di prosciutto crudo ed una mela cotta. Oltre che di ferro, gli spinaci sono ricchi di vitamina K (89 microgrammi %), per la qual cosa favoriscono i processi cicatriziali a carico della mucosa duodenale lesa. b) Polenta al pomodoro, una lattuga bollita (129 microgrammi di vitamina K) e una banana matura. All’azione lenitiva della lattuga, si aggiunge quella della polenta che, fra gli altri nutrienti, apporta magnesio, dotato di effetto antinfiammatorio locale. Si noti come la banana, a differenza dell’ulcera gastrica, venga proposta in questo caso matura, in modo da potenziare lo stimolo iperglicemico ed indurre il pancreas esocrino a produrre una maggiore quantità di bicarbonati. c) Orecchiette alle cime di rapa (650 microgrammi di vitamina K), un uovo alla coque ed una pera cotta. L’apporto di ferro da parte delle cime di rapa e dell’uovo alla coque facilita i processi di coagulazione locali; la pera cotta svolge la stessa azione iperglicemizzante della banana, impiegata nell’esempio precedente. d) Orzetto al burro, 150 gr. di broccolo (200 microgrammi di vitamina K) e 6 prugne cotte. L’assenza del glutine e l’azione lenitiva dell’orzo a carico delle mucose digerenti, lo rendono indicato in questo tipo di patologie. L’orzetto si realizza mettendo a soffriggere: guanciale, prezzemolo, aglio, cipolla e sedano, sui quali si verserà, quando saranno appassiti, l’acqua fredda per creare uno shock termico: Quando l’acqua avrà ripreso a bollire si aggiungerà l’orzo perlato aggiustandolo di sale e portandolo a completa cottura. Gastriti atrofiche Mentre le forme di gastrite ipertrofica, con aspetto “cerebriforme” della mucosa sono spesso solo un reperto gastroscopico che evidenzia delle iperplasie parziali della mucosa gastrica, le forme atrofiche sono più frequenti e terapeuticamente impegnative. A differenza delle gastriti con iperacidità e dell’ulcera gastrica, nelle forme atrofiche gli alimenti eccessivamente disidratati costituiranno una controindicazione, che si somma a quella degli alimenti troppo imbibiti, di cui è stato illustrato l’effetto negativo nelle altre forme di gastrite. In questo caso bisognerà: 1) evitare i cibi eccessivamente secchi, come il pane troppo tostato, la frutta secca o la pasta eccessivamente al dente; 2) aumentare quelli acidi e con pochi zuccheri, come il kiwi, la cui vitamina C svolgerà un’azione di stimolo a carico della mucosa che secerne acido cloridrico; 3) sfruttare il potere digestivo del calore, per esempio facendo bere a fine pasto una tisana di buccia di limone, meglio nota popolarmente come “canarino”, in modo da sfruttare l’azione dell’acido citrico e del limonene o, una tisana di basilico che si ottiene facendo bollire per 2 minuti 5 foglie di basilico in 100gr. di acqua, o, in mancanza d’altro, una semplice tazzina d’acqua calda; 4) proporre alimenti ricchi di sali o aumentare moderatamente l’aggiunta di sale ai cibi, in modo da potenziare la produzione di acido cloridrico e migliorare i processi digestivi, al contrario di quanto avviene nelle gastriti iperacide, nelle quali l’eccesso di sale si dimostrerebbe irritante; 5) Impiegare il peperoncino: in virtù della sua azione revulsiva, infatti, si dimostra efficace per aumentare il flusso sanguigno ed indurre le cellule produttrici di acido cloridrico ad aumentare il loro secreto, mentre le zone di atrofia della mucosa, più o meno estesa, si gioveranno dello stimolo biologico ricostruttivo apportato dal sangue. L’attenzione bionutrizionale sarà rivolta principalmente alla ricerca di quelle soluzioni alimentari che rispettino i punti precedentemente citati, prediligendo alimenti che siano moderatamente acidi e tali da dover essere adeguatamente insalivati durante la masticazione; si farà in modo che siano anche destrutturati, come i passati di verdure, purché non troppo liquidi, in quanto potrebbero diluire i succhi gastrici già scarsi del paziente. Una soluzione ottimale nella prima fase del trattamento può essere rappresentata da purè di patate preparato con aggiunta di buccia di limone grattugiata e peperoncino Infatti, la patata svolge azione lenitiva a carico della mucosa atrofica, la sua fibra stimola la peristalsi intestinale ed il potassio contrasta la tendenza allo spasmo della muscolatura liscia .Il latte che si aggiunge alle patate, mai bollito, ma soltanto riscaldato, (in quanto essendo già pastorizzato prima della vendita, se fosse bollito, subirebbe ulteriore denaturazione delle sue proteine, divenendo indigesto), amalgamato al burro, senza mai riportare sul fuoco il purè, apporta proteine di facile digeribilità e non può coagulare nel lume gastrico per la presenza del burro che fornisce lipidi insaturi, sali e zuccheri. Il peperoncino stimola la mucosa; infine, l’acido citrico ed il limonene presente nella buccia di limone agevoleranno tutti i processi digestivi, bilanciando il grado di acidità. Il pasto potrà essere completato con mezza mela cruda grattugiata, a cui si aggiungeranno poche gocce di limone. Nel pasto serale si potrà utilizzare una passata densa di fagioli, di ceci o di piselli con peperoncino, sale ed olio extravergine d’oliva, insieme a mezzo kiwi per eccitare leggermente la secrezione gastrica.

Il giorno seguente una patata bollita, schiacciata e condita con olio, sale, peperoncino e qualche goccia di aceto, insieme ad una coppetta di fragole, che svolgeranno la stessa azione richiesta al kiwi nel pasto precedente. A differenza dei frutti di bosco, la fragola non è dotata di un “contenitore” sotto forma di scorza o di buccia, per cui costituisce una delle poche soluzioni bionutrizionali nei pazienti fortemente compromessi nelle loro capacità digestive; inoltre, il suo contenuto in acido acetilsalicilico svolge azione antinfiammatoria, utile in molte patologie dell’apparato digerente ad eccezione delle gastriti iperacide e delle ulcere gastriche. Se la risposta clinica è positiva, a cena si potrà tentare la stimolazione intensa di una patata fritta. Normalmente il pane è di scarsa utilità in queste situazioni cliniche, in quanto si presenta con struttura compatta e ruvida e veicola una quota di vitamine del gruppo B sotto forma di lievito, che renderebbe troppo laborioso il lavoro di uno stomaco in difficoltà. Per ragioni diverse, anche la pasta o il riso non costituiscono una soluzione ottimale in fase acuta, in quanto tendono ad imbibirsi troppo di acqua durante la cottura. Meno problematico è l’impiego dell’orzo, che conserva anche da cotto la sua consistenza elastica, ad espressione di un minore trattenimento di acqua.

La prima carne da proporre ad un paziente affetto da atrofia gastrica è il prosciutto crudo, che costituisce una delle strutture proteiche animali più digeribili in assoluto, in virtù del suo contenuto in sale e della ridotta percentuale di scorie azotate. Uno dei primi pasti completi ad azione terapeutica potrà essere composto da una patata fritta, 50 g di prosciutto crudo e 100 g di fragole. Controindicato nella gastrite e nell’ulcera, il sedano potrà essere utile in questa situazione clinica, a condizione di impiegarlo solamente bollito, in modo da sfruttare l’effetto eccitante della sedanina, senza appesantire la digestione a causa della sua cellulosa compatta e coriacea, che può essere eliminata passando al setaccio il sedano ed addizionandolo di fecola di patate o di maizena, per formare una vellutata; inoltre, la presenza di acido acetilsalicilico nel sedano, ne rende preziosa l’azione antinfiammatoria. Lo stesso finocchio si potrà proporre bollito e passato, magari con aggiunta di burro crudo e di maizena o fecola di patate, in modo da renderlo cremoso. Indicata è la crema di asparagi, in modo da sfruttare lo stimolo alla peristalsi operato dall’asparagina. Perfino qualche fettina di mortadella, nonostante la complessità nutrizionale peggiorata dalla scarsa genuinità dei componenti cotti e perciò denaturati, può rivelarsi in questo caso paradossalmente utile, in quanto se ne sfrutta l’effetto irritante e la notevole destrutturazione delle sue proteine, che la rendono un alimento quasi cremoso.

Reflusso gastro-esofageo

Un cenno a parte meritano le indicazioni bionutrizionali nei reflussi gastro-esofagei, che non sono necessariamente associati ad uno stato di iperacidità. Infatti, la mucosa dell’esofago non secerne acido cloridrico e difficilmente il suo stato infiammatorio arriva fino alla formazione di lesioni ulcerative. Per questa ragione alimenti come l’ananas sono pericolosi nell’ulcera gastrica, mentre possono essere sopportati nella esofagite da reflusso, che si può giovare dell’azione antinfiammatoria della bromelina. Viceversa, la mela cruda provoca aumento del dolore in quanto, anche se ben masticata, è scivolosa come l’ananas, ma è piuttosto compatta e ruvida ed irrita la parete dell’esofago durante il transito, in quanto il movimento peristaltico avvolge e stringe il bolo per consentirne la progressione verso il lume dello stomaco. Pertanto, saranno controindicati tutti gli alimenti che possano traumatizzare il canale esofageo durante il transito ed i liquidi contenenti sostanze irritanti, quali il succo di melograno o quello di limone puro. E’ evidente che il primo consiglio sarà quello di evitare alimenti molto caldi o freddi e di masticare accuratamente i cibi prima di deglutirli, allo scopo di sminuzzarli e permetterne una perfetta insalivazione, in quanto la saliva stessa è, per i suoi contenuti, antinfiammatoria, lenitiva, disinfettante e cicatrizzante . Secondo quanto detto dovrebbe essere meno fastidiosa l’assunzione di pane fresco, perché più morbido, rispetto a quello reso più duro dalla tostatura; in realtà, il paziente riferisce di avere meno difficoltà con il secondo rispetto al primo, in quanto il pane tostato richiede una masticazione accurata, mentre quello fresco viene spesso ingerito senza averlo ben masticato. Inoltre, la mollica morbida tende a formare una struttura elastica tondeggiante che si deglutisce con difficoltà, mentre la crosta viene ridotta a poltiglia morbida. Anche la maggior parte dei dolci provoca dolore da graffiamento della mucosa, ad eccezione di quelli che scivolano facilmente senza restare adesi alle pareti dell’esofago; quelli più cremosi, invece, potrebbero favorire la moltiplicazione batterica per il loro contenuto in zuccheri. Dolci ideali sono il cream caramel o la panna cotta, mentre sono controindicati i biscotti, i pasticcini, il cioccolato e le mousse. Un alimento dolce molto utile è il miele, proponibile anche nelle esofagiti da reflusso dei neonati che si alimentano solo con il latte; questo importante alimento che la natura mette a disposizione ha un’azione nutritiva, lenitiva e antibiotica. Nella fase acuta dell’esofagite da reflusso non darà mai fastidio la lattuga bollita, la bieta bollita, la zucchina e tutti gli alimenti che siano molli e scivolosi, come le melanzane a funghetto, mentre in una seconda fase bisognerà tenere bene in considerazione la fisiopatologia e ristrutturare la mucosa esofagea infiammata e indebolita dal processo patologico. La prima attenzione sarà rivolta ad evitare i fritti che non siano realizzati con olio extravergine d’oliva, il quale svolge una diretta azione lenitiva a carico della mucosa, in virtù di una densità che, invece, è insufficiente negli oli di semi. Non è utile il burro, sia crudo che cotto, perché non possiede una adeguata viscosità, che l’olio conserva pienamente anche quando è utilizzato per la cottura. Bisognerà proporre all’organismo proteine nobili ad immediata utilizzazione che servono come materiale costruttivo e di riparazione di una mucosa danneggiata dai processi infiammatori, mentre si provvederà a fornire alimenti ad azione lenitiva, antinfiammatoria ed antibiotica per ridurre e risolvere la flogosi locale; in particolare, alle preparazioni alimentari si aggiungerà costantemente l’aglio e/o la cipolla cruda, che non disturbano il paziente, a differenza di quanto avviene nelle patologie gastriche. A fine pasto può essere indicato un frullato di banane o di pera, o un bicchiere di latte tiepido che pulisce il canale esofageo, lasciando una verniciatura lipidica di protezione, mentre sarebbe controindicato un gelato, in quanto provocherebbe una risposta edemigena secondaria allo shock da freddo. Infatti, bisogna immaginare la mucosa esofagea irritata e lesa, con zone più o meno estese ridotte allo stato di epitelio escoriato; per questa ragione, basta qualsiasi trauma termico, meccanico o chimico per provocare una riacutizzazione del dolore. In questi pazienti il pasto non deve mai iniziare direttamente con le proteine, ma con alimenti che lubrifichino il canale esofageo, preparandolo ad accogliere strutture più compatte. Per esempio, una vellutata di ceci, condita con abbondate olio extravergine d’oliva, seguita da prosciutto crudo e frullato di latte, banana e pera. Anche nella scelta dei formaggi, sarà indispensabile evitare quelli che hanno il potere di aderire al lume esofageo, come lo stracchino, la fontina, il parmigiano o la ricotta. Meglio la mozzarella, la scamorza ai ferri, l’omelette al formaggio o qualunque formaggio fuso. L’omelette ai funghi, ad esempio, scivola facilmente, mentre i ravioli con ricotta e spinaci presentano una qualche difficoltà nel transito. Facilmente sopportato è il peperone arrosto, meno quello in padella, forse perché diventa molto più destrutturato e perciò tende a progredire lungo il canale esofageo con maggiore lentezza. Va bene la pasta all’arrabbiata, preferendo gli spaghetti ai rigatoni, ai fusilli o alle penne. La maggior parte dei pazienti con esofagite da reflusso in fase acuta si giova dell’assunzione di qualche cucchiaino da caffè di patata cruda finemente grattugiata, solitamente facilmente reperibile. Bisogna avere l’accortezza di scegliere la patata a pasta gialla e di testarla preventivamente, facendone ingerire una piccolissima quantità. Un ulteriore quadro è rappresentato dal reflusso gastroesofageo saltuario in pazienti che lamentano costantemente una lentezza digestiva, spesso associata ad una distensione gastrica evidente, frequenti eruttazioni e, spesso, una storia caratterizzata da periodi di iperacidità, soprattutto nei periodi primaverili ed autunnali. Alcuni riferiscono l’istaurarsi del disturbo dopo un abuso di farmaci che aggravano la funzionalità epatica, quali la pillola estro-progestinica, gli antinfiammatori, gli antibiotici o medicamenti che alterino la peristalsi intestinale, come alcuni antipertensivi. In questi casi la finalità terapeutica sarà quella di accelerare lo svuotamento gastrico, in modo da evitare il gonfiore persistente che rende beante lo sfintere gastro-esofageo e favorisce il reflusso. Uno dei meccanismi fisiologici sfruttato dal trattamento bionutrizionale è quello di aumentare la disponibilità dei sali biliari, mediante la stimolazione colecistica attuata attraverso la modalità della frittura. La dimostrazione che in questi pazienti l’iperacidità non costituisce un fattore determinante la persistenza della patologia è data dal fatto che somministrando loro il pesce , avvertiranno un beneficio , in quanto il suo contenuto in iodio aumenta l’attività tiroidea e, di conseguenza, accelera la peristalsi intestinale. Perfino i frutti di mare, estremamente irritanti per la mucosa gastrica, in virtù dello iodio contenuto, possono essere utilizzati per accelerare lo svuotamento gastrico ed evitare il reflusso attraverso il cardias. La stimolazione epatica sarà determinante, inoltre, per migliorare la capacità organica di liberarsi dei cataboliti tossici responsabili del rallentamento digestivo.

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Nutrizione

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Alimenti sinergici e contrari ai farmaci antiepilettici: linee guida bionutrizionali

Alimenti sinergici e contrari ai farmaci antiepilettici: linee guida bionutrizionali

Per informazioni più dettagliate, relative anche alle varie categorie di farmaci antiepilettici e ai loro effetti collaterali, si può scaricare in PDF il Capitolo completo, estratto dal libro: Fausto Aufiero, Alimentazione e psicofarmaci, cibo e benessere neuropsichico, Edizione Nutrire La Vita, 2023.

Nelle sindromi epilettiche, dette anche “comiziali” o “morbo sacro”, il disturbo o la perdita momentanea dello stato di coscienza dipendono da cause organiche quasi sempre ben documentabili. La prova che non si tratta di alterazioni dell’autocoscienza, tipiche delle cosiddette malattie mentali, è dimostrata dal fatto che questa malattia ha interessato grandi personaggi storici, ai quali non mancava certo genialità e capacità intellettiva e creativa. Fra i tanti, sembra che ne fosse affetto Giulio Cesare, Giovanna D’Arco e Gustave Flaubert, ma anche il grande scrittore russo Fjòdor Dostojevskij. Nel romanzo “L’Idiota”, egli descrive per bocca di uno dei personaggi, il principe Miskin, ciò che succedeva durante la crisi: “improvvisamente gli si spalancò davanti come un abisso: una straordinaria luce interiore gli illuminò l’anima. Quella sensazione durò forse un mezzo secondo; nondimeno egli si ricordò in seguito con chiara consapevolezza il principio, la prima nota dell’urlo terribile che gli sfuggì dal petto… Poi la sua coscienza, in un attimo, si spense e subentrò una tenebra fitta”.

I riferimenti storici relativi a questa malattia sono molto antichi. La parola epilessia è di origine greca e deriva dal verbo “epilambànomai”, cioè “sono colto di sorpresa, sono assalito”, perché, a differenza di altre malattie, sopraggiungeva all’improvviso senza dare il tempo al malato di accorgersi di cosa gli stesse accadendo. L’impressione era quella di essere colpiti dall’ira divina, da qui il termine di “morbo sacro”. Nella Roma antica, invece, questa malattia era nota come “morbus comitialis”, in quanto l’eventuale presenza di convulsioni epilettiche in uno dei partecipanti a un comizio era ritenuta di malaugurio e provocava lo scioglimento dell’adunanza. Persino nel celebre quadro di Raffaello Sanzio, rappresentante la Trasfigurazione del Cristo, in un particolare è visibile un fanciullo con gli occhi sbarrati e additato da chi gli sta vicino, plastica espressione di una crisi epilettica in corso scatenata dalla intensa situazione psico-emotiva del momento (figura 1).

Altrettanto emblematica è la similitudine fra crisi mistica ed epilettica, ben raffigurata nella conversione di San Paolo, dipinta da Caravaggio (figura 2): “E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti. Rispose: Chi sei, o Signore?. E la voce: Io sono Gesù, che tu perseguiti” (Atti degli Apostoli, 9, 1-9).

Tra il V e il IV sec. a.C. Ippocrate, considerato padre della medicina, fu il primo a sostenere che il cosiddetto “morbo sacro” non aveva nulla di divino ma era una malattia da ricondurre al cervello – si badi che Egli non distingueva tra malattie mentali e fisiche, perché riteneva che corpo e mente fossero una sola cosa: se l’uno stava male, stava male anche l’altro – sostenendo che “Questa malattia non mi sembra più divina di tutte le altre ma, come le altre, ha una sua causa naturale”. Ippocrate pensava ad una malformazione del cervello o comunque ad una mancanza d’aria in esso: il medico greco cercava di spiegare l’epilessia come un eccesso di “flegma”, provocato da raffreddamenti che portano ad una secrezione eccessiva di muco da parte del cervello. Sebbene la spiegazione non potesse essere scientifica in senso moderno, tuttavia gli va riconosciuto il merito di essere stato il primo a laicizzare tale sindrome e aver, così, gettato le basi per studiare soluzioni a portata del pensiero umano.

Dal punto di vista elettro-fisiologico, la crisi epilettica è un evento clinico transitorio, dovuto a un’improvvisa, diffusa e ipersincrona depolarizzazione delle membrane neuronali che determina una scarica improvvisa, con manifestazioni che variano in base all’area di tessuto nervoso interessato. L’elettroencefalogramma, di cui nella figura 3 si vedono i tracciati tipici della vita di veglia, del sonno e dello stato di coma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è dirimente per capire se un soggetto è epilettico o a rischio. Infatti, la diagnosi è sostanzialmente clinica con differenze legate alla sede e al numero di neuroni coinvolti dalla scarica anomala, nonché al grado di maturazione cerebrale del paziente. Anche le crisi convulsive hanno la stessa genesi fisiopatologica, per esempio quelle febbrili nei bambini o quelle dipendenti da cause identificabili come ipoglicemie, malformazioni, malattie metaboliche, tumori cerebrali, traumi, infezioni, ecc. Invece, si parla di epilessia conclamata solamente quando vengono soddisfatti due criteri: il primo è clinico ed è costituito dalla presenza sintomatologica delle crisi; il secondo implica la loro ripetitività; questo significa che un’unica crisi, anche se di natura sicuramente epilettica, non consente di formulare una diagnosi certa di epilessia richiedente immediata terapia specifica.

La diagnosi, quindi, si basa su dati clinici desunti dalle informazioni che il paziente stesso è in grado di fornire, e soprattutto da ciò che possono riferire testimoni oculari opportunamente interrogati. Il sussidio elettroencefalografico può dare informazioni sulla funzionalità elettrica di diverse aree neuronali e permette di registrare le scariche abnormi responsabili delle crisi (figura 4). Queste ultime possono essere circoscritte, oppure generalizzate, scatenate da particolari manovre, quali l’iperventilazione o la stimolazione luminosa intermittente, possono essere correlate con l’evento critico (EEG critico), oppure costituire un elemento del tracciato di base (EEG intercritico). La valutazione dell’EEG deve necessariamente essere riportata nell’ambito del contesto clinico, in quanto la registrazione di anomalie non consente di per sé di formulare la diagnosi: anomalie di tipo epilettico, infatti, possono essere registrate anche in soggetti che non abbiano mai presentato crisi nel corso della loro vita.

 

Le sindromi epilettiche

All’osservazione bionutrizionale capitano frequentemente pazienti epilettici adulti e, ancor di più, in età pediatrica. Anche quando la richiesta terapeutica non riguarda in modo diretto la loro patologia, non si può prescindere dalla conoscenza di quest’ultima e da quella degli effetti collaterali dei farmaci assunti. Di questi ultimi, infatti, bisognerà tener conto nella programmazione nutrizionale, scegliendo i cibi più adatti per non interferire con la terapia antiepilettica.

Quindi, sia pure in modo sintetico, vanno definite quelle che sono le varie espressioni sintomatologiche della malattia, in base alle quali viene prescritta la terapia da parte del neurologo. In linea generale, si distinguono due forme principali di crisi epilettiche, quelle generalizzate e quelle focali. Si parla di crisi generalizzata se, dall’inizio, l’intero cervello viene interessato dalle scariche neuronali. Invece, se le scariche sono circoscritte a una sola area del cervello, il cosiddetto focolaio epilettico, si parla di crisi focale, che può diventare secondariamente generalizzata.

È utile sapere come, sulla base dei sintomi clinici e dell’EEG, i medici specialisti distinguono le diverse forme di crisi:

Crisi di assenza - Con questa definizione si indicano crisi minori, di breve durata e senza spasmi. I sintomi principali che le caratterizzano sono una breve “assenza” con mancanza di lucidità e perdita di memoria. Le assenze si manifestano più di frequente nei bambini piccoli e in età scolare e sono le forme più frequenti di crisi epilettiche nei bambini. Molto spesso il trattamento bionutrizionale contribuisce a renderle meno frequenti e di minore intensità. Con l’avanzare dell’età, queste assenze diventeranno sempre più rare.

Crisi miocloniche - Sono caratterizzate da contrazioni improvvise, “fulminee” e di breve durata, che interessano per lo più gruppi muscolari circoscritti e influenzano il movimento, ma senza perdita di coscienza. Alcune crisi miocloniche interessano soltanto la muscolatura delle spalle e delle braccia, in altre forme possono essere coinvolti tutti i muscoli. L’intensità può variare di molto. Le crisi miocloniche rientrano nelle crisi generalizzate e possono manifestarsi a qualsiasi età, ma iniziano più di frequente nel periodo della pubertà; si può facilmente intuire come sia importante nutrirsi in modo da non turbare questa delicata fase della vita, che implica adattamenti neuro-endocrini, psicologici e metabolici.

Crisi focali - Iniziano in un’area circoscritta del cervello, ad esempio in una parte del lobo temporale o frontale. In certi casi si limitano a questa determinata zona iniziale. Possono essere accompagnate o meno da disturbi della coscienza e assumere forme molto diverse. Il loro arrivo è a malapena percettibile per le persone esterne. In caso di crisi con disturbi della coscienza, i diretti interessati sembrano assenti, dissociati e senza un contatto normale, come in trance o in sogno; in seguito, non hanno alcun ricordo di quanto è accaduto.

Crisi generalizzate tonico-cloniche - Sono le forme più drammatiche e impressionanti di crisi epilettiche, dette anche “grande male”. Questo tipo di crisi si articola in tre fasi. I sintomi della fase tonica sono la perdita di coscienza, caduta a terra, irrigidimento dell’intero corpo e pupille dilatate non reagenti alla luce. Nella fase clonica si manifesta una contrazione al viso, alle braccia/gambe e al tronco e una breve apnea. Nella fase successiva si instaura nuovamente la respirazione, la persona colpita è di nuovo cosciente, ma esausta.

Le crisi focali possono degenerare anche in crisi di grande male e vengono pertanto dette crisi generalizzate tonico-cloniche secondarie. Talvolta, le descrizioni o le osservazioni permettono di identificare a posteriori il focolaio epilettico nel cervello.

Stato di male epilettico - Si definisce stato epilettico un singolo attacco che dura per più di cinque minuti o attacchi che si susseguono così velocemente che la persona colpita non ha la possibilità di riprendersi. Esistono stati epilettici con o senza spasmi e altri con o senza perdita di coscienza. Uno stato epilettico convulsivo può essere fatale e, pertanto, deve essere trattato prontamente in modo idoneo, ma anche le altre forme richiedono una diagnosi rapida e una immediata terapia.

 

Patogenesi dell’epilessia e prime indicazioni nutrizionali

Quale che sia la sua origine, la manifestazione clinica dell’epilessia è la conseguenza di una improvvisa alterazione del funzionamento neuronale che genera una scarica parossistica ad alta frequenza, oppure una scarica sincrona a bassa frequenza e di grande voltaggio4. Nel paragrafo precedente si è visto che non esiste una sola epilessia, ma tante espressioni diverse di essa, sia per le forme idiopatiche che per quelle la cui causa etiologica è documentata come danno di una o più zone del tessuto nervoso. Tuttavia, l’identificazione dei fattori etiologici è stata di scarso aiuto per la terapia farmacologica, che si è invece avvalsa della graduale scoperta di quelli patogenetici. La neurofisiologia della trasmissione sinaptica, il ruolo dei neurotrasmettitori e dell’equilibrio elettrolitico, in particolare degli ioni sodio, potassio, calcio, cloro e magnesio, hanno permesso la comprensione, se non del “perché” si verifica la crisi, almeno del “come” essa avviene e si propaga.

Per quanto riguarda i neurotrasmettitori, nel capitolo ad essi dedicato è stato già affrontato il tema del substrato alimentare necessario per ognuno di essi. Altrettanto importante in Bioterapia Nutrizionale è la costante attenzione all’equilibrio elettrolitico, affinché nella sequenza quotidiana dei pasti non si verifichi il prevalere o la carenza degli ioni citati prima. Per quanto riguarda il sodio ed il potassio, il loro bilanciamento è fondamentale per i processi bioelettrici di depolarizzazione e ripolarizzazione della membrana (figura 5). Per il calcio si rimanda al prossimo paragrafo dedicato alla vitamina D, mentre è noto che deficit protratti di magnesio nell’uomo e negli animali possono provocare tensioni neuromuscolari, stress, insonnia e disturbi neurologici, tra cui ipereccitabilità, che non è certo auspicabile in pazienti epilettici. Infine, il canale del cloro ClC-2 consente il passaggio di questo ione in seguito a iperpolarizzazione della membrana, allo scopo di mantenere bassa la sua concentrazione nella cellula neuronale e consentire l’azione inibitoria del GABA, importante per controbilanciare lo stato di ipereccitabilità5. Qualora siano accertati specifici deficit elettrolitici non facilmente gestibili con opportuni accorgimenti nutrizionali, sarà necessario ricorrere anche alla somministrazione di integratori per il tempo necessario.

 

Il ruolo del calcio e della vitamina D

Il calcio è il minerale più abbondante nel corpo umano; il 99% di esso è contenuto nelle ossa, mentre solo l’1% è ripartito nei tessuti molli e nei liquidi intra ed extra cellulari, ma è indispensabile per l’attivazione di sistemi enzimatici, la trasmissione dell’impulso nervoso, la contrazione muscolare, la permeabilità delle membrane e la moltiplicazione e differenziazione cellulare. A livello neuronale, i canali del calcio giocano un ruolo nella fase di depolarizzazione dell’attività ritmica e sono state identificate anomalie genetiche che coinvolgono questo ione nell’eziopatogenesi delle epilessie, in particolare in quelle caratterizzate da assenze e nell’epilessia mioclonica giovanile6. Il ruolo determinante dei canali del calcio nel controllo dell’eccitabilità neuronale e nella genesi delle epilessie è inoltre dimostrato dalla presenza di modelli murini mutanti per diverse subunità di canali del calcio voltaggio-dipendente, che sviluppano caratteristiche assenze generalizzate7.

Oltre all’apporto di alimenti contenenti calcio, il metabolismo di quest’ultimo dipende anche dalle molteplici funzioni organiche della vitamina D, che va monitorata ed eventualmente integrata, in quanto una sua riduzione costituisce uno dei possibili effetti collaterali dei farmaci antiepilettici. In uno studio clinico su 31 soggetti epilettici si è rilevato come la terapia con acido valproico protratta per oltre sei mesi ha provocato nel 94% dei pazienti una carenza di vitamina D. Tale carenza non si è risolta facilmente nemmeno con l’assunzione di un integratore, nonostante all’inizio del trattamento i pazienti presentassero un livello normale (maggiore di 30 ng/ml) o sufficiente (20-30 ng/ml).

La vitamina D, che sarebbe più corretto definire un ormone, comprende cinque tipi diversi di molecole liposolubili (D1-D2-D3-D4-D5), di cui la D3 (colecalciferolo) e la D2 (ergocalciferolo) sono le più importanti per l’organismo umano. La D2 è presente nei funghi e in alimenti vegetali che non devono mai mancare in una corretta alimentazione, mentre la D3 richiede l’impiego di progotti animali ed è necessario esporre la cute alla luce solare per convertire il precursore nella forma attiva. La vitamina D ha un ruolo importante non solo per le ossa, ma anche per il sistema nervoso e, in particolare, nelle malattie neurodegenerative e neurologiche come l’Alzheimer, l’epilessia, le demenze, il Parkinson, la sclerosi multipla e la schizofrenia. Si tratta di una sostanza coinvolta nella neuroprotezione e nello sviluppo del cervello. È stato scoperto che vi sono recettori specifici sui neuroni, sulle cellule gliali e nel sistema nervoso periferico nonché nel midollo spinale. Da ciò si è ipotizzato che la vitamina D possa avere un effetto anticonvulsionante. Se si tiene conto che l’epilessia è una malattia molto diffusa tra i bambini, nei quali il processo di ossificazione è importantissimo per la loro crescita, una carenza di vitamina D causata dalle terapie antiepilettiche può compromettere gravemente il loro sviluppo. Si riporta in nota il riassunto di uno studio molto interessante riguardante questo problema8.

Fin dagli anni Settanta del secolo scorso, sono stati eseguiti numerosi studi per verificare se l’integrazione di vitamina D in pazienti affetti da epilessia potesse in concreto ridurre le convulsioni, particolarmente in quei soggetti resistenti ai farmaci, ovvero nel 30% dei casi. In effetti è stato osservato che la somministrazione di questa vitamina portava ad una riduzione della frequenza delle convulsioni, anche se ad oggi il suo meccanismo d’azione non è ancora chiaro. Uno studio pubblicato su Epilepsy and Behavior prevedeva l’assunzione di 5.000 UI/giorno di vitamina D3 in pazienti affetti da crisi focali o convulsioni tonico-cloniche con resistenza a due o più farmaci antiepilettici ed anticonvulsivanti. Le crisi epilettiche si sono ridotte del 26.9% dopo sei settimane di assunzione e del 10.7% dopo dodici settimane. A fronte dei risultati che si ottenevano con la terapia farmacologica, questo studio non fu ritenuto significativo e la comunità scientifica ritenne necessario approfondire il ruolo della vitamina D.

Infatti, nel 2012 è stato condotto un altro studio che ha preso in considerazione gli effetti della normalizzazione dei livelli di 25-idrossivitamina-D in pazienti con epilessia farmaco-resistente tramite somministrazioni giornaliere. Anche in questo caso si è potuta registrare una diminuzione significativa delle crisi di circa il 40%. Pare che ora, alla luce di questo e di altri studi più recenti, si sia propensi a credere che l’integrazione di vitamina D possa influire sulla regolazione dei livelli sierici e avere un effetto anticonvulsionante. Dal punto di vista bionutrizionale va fatta una logica considerazione: anche se la vitamina D non sarà mai considerata una valida e consolidata terapia antiepilettica, una sua carenza va sempre reintegrata.

 

Epilessia e vigilanza neuropsichica

In quanto cellula, singolarmente il neurone non ha una intelligenza finalistica ma, nella zona sinaptica alla fine dell’assone, si limita a trasferire, accelerare, rallentare o bloccare un potenziale d’azione con carica bioelettrica positiva o negativa. Quali che siano i fattori che alterano questo meccanismo neurorecettoriale, l’epilessia riguarda l’anomalo funzionamento dei canali ionici di membrana e, pertanto, rientra nel vasto novero delle cosiddette “canalopatie” caratterizzate dallo squilibrio di quegli elettroliti, di cui nel paragrafo precedente si è raccomandato un giusto apporto nutrizionale9. Questa precisazione è importante, in quanto permette di distinguere in modo netto l’epilessia da altre patologie organiche del sistema nervoso come le neuroatipie delle sindromi autistiche, che riguardano non direttamente il neurone, bensì l’ambiente che lo circonda, definito oggi “connettoma”, di cui se ne valuterà anche l’implicazione immunitaria in un capitolo dedicato.

Le alterazioni più o meno intense della vigilanza mentale nell’epilettico sono dovute ad una scarica ipersincrona. Per garantire i fenomeni di coscienza ed autocoscienza, il cervello ha bisogno di popolazioni neuronali ampiamente distribuite con cariche negative e positive. Se, per un tempo anche limitato, prevalgono le une o le altre, alle funzioni cognitive superiori mancherà il supporto biologico. In un confronto con il Prof. Antonio Parisi, neurofisiopatologo, si è dibattuto il significato di coscienza e consapevolezza, constatando che lo scienziato non ritiene ancora degno di studio quello stato esclusivamente umano, e superiore rispetto ad esse, che in diversi capitoli precedenti è stato definito “autocoscienza”; vale a dire, quella dimensione che implica la sfera della libertà individuale e dell’autodeterminazione, oltre le necessità biologiche di specie. Ci si è trovati d’accordo sul fatto che coscienza e consapevolezza sono sinonimi e il neurofisiopatologo ha perfettamente ragione quando sostiene che serve una appropriata distribuzione delle cariche neuronali del cervello. Esse richiedono, però, anche un’altra funzione neurologica, quella che permette la memoria e l’orientamento spazio-temporale. Uno smemorato, per esempio dopo un trauma cranico, non può essere consapevole di sé stesso nel senso compiuto del termine. Un animale, e nei mammiferi superiori è del tutto evidente, è perfettamente cosciente e vigile, ma una differenza sostanziale è che queste funzioni nell’Essere umano vanno ben oltre le necessità della sopravvivenza biologica e della perpetuazione della specie: esse sono anche alla base delle potenzialità creative specifiche del livello autocosciente.

Il riflesso spinale è invece subcosciente e dipende dai centri di quello che MacLean definì cervello rettiliano. Si tratta di quel riflesso, condiviso con gli animali, che, senza pensarci, fa allontanare la mano poggiata per errore su una piastra rovente. Se l’informazione dovesse arrivare prima alla neocorteccia e alla decisione di spostarla, la mano sarebbe già bruciata.

 

Prima delle terapie farmacologiche

I primi farmaci utilizzati come cura delle sindromi epilettiche risalgono alla seconda metà del secolo scorso, un tempo relativamente recente nella storia della medicina. Viene da chiedersi in che modo si tentava concretamente di aiutare il malato, oltre ai riti magici e a intrugli di varia natura somministrati allo scopo di scacciare gli spiriti maligni. Nonostante già Ippocrate, e poi Galeno, avessero intuito e sostenuto la genesi organica e naturale di questa malattia, nel Medioevo si arrivò persino a concepirla come una forma di possessione demoniaca da scacciare con esorcismi. Non è facile spegnere il riverbero di questi pregiudizi che hanno condizionato persino gli albori della moderna psichiatria, evidenziati dalla difficoltà a distinguere in modo netto l’epilettico dal malato mentale. Ancora oggi la discriminazione sociale spinge spesso i pazienti e le famiglie a vivere la malattia con disagio e vergogna e quindi a nasconderla. In molti casi la società influenza la vita di chi è malato, ma per fortuna esistono nuove ricerche e conoscenze che permettono di dare migliori informazioni sul problema, di creare associazioni di sostegno e gruppi di auto per persone epilettiche e per i loro familiari.

Può rivestire interesse il fatto che i medici greci si rifacevano alle fasi lunari considerando questa malattia il risultato di un’offesa alla Dea Selene (Luna), da cui la definizione dell’epilessia anche come “mal lunatico”. Ancora oggi, nell’accezione comune, si dice “hai la luna storta” o viene definito “lunatico” un tipo strano o dai comportamenti imprevedibili, come potrebbe sembrare un paziente in corso di crisi epilettica. Va detto, tuttavia, che uno studio sulla rivista Epilepsy & Behavior del 2004 non ha trovato, o non ha cercato in modo spregiudicato, nessun collegamento tra crisi epilettiche e luna piena, nonostante l’insistenza di numerosi pazienti. Eppure, non ci sono dubbi sul fatto che la forza gravitazionale cosmica della luna12 influisce su tutti i liquidi del pianeta, dal ciclo femminile (la fase ovulatoria del ciclo in coincidenza con la luna piena comporta una maggiore imbibizione dei tessuti), alla probabilità di partorire delle gestanti a termine, dalla linfa delle piante per gli innesti o la potatura, alla fermentazione del vino, dalle variazioni del tono dell’umore alla crescita dei parassiti intestinali, tanto per citarne alcuni. Questa influenza andrebbe presa più sul serio da una ricerca scientifica forse non sufficientemente aperta alla visione dinamica dei fenomeni vitali normali e patologici.

Prima di entrare nello specifico delle linee guida bionutrizionali utili nei soggetti affetti da epilessia per cercare di ridurre la frequenza e l’intensità delle crisi, o per mitigare gli effetti collaterali dei farmaci assunti, è interessante accennare al fatto che l’unica terapia che, in molti casi, dava risultati concreti era di tipo nutrizionale. Tutto iniziò negli anni Venti del secolo scorso dalle intuizioni di un osteopata del Michigan, Hugh W. Conklin, il quale ipotizzò che l’epilessia potesse essere causata da una sorta di intossicazione da parte di alcuni metaboliti prodotti dall’intestino13. Egli, allora, riuscì a trovare pazienti per sperimentare il digiuno come cura dell’epilessia per un periodo lungo di tempo, ottenendo addirittura un tasso di guarigione del 90% nei bambini e 50% negli adulti. Il trattamento venne poi ripreso da molti medici soprattutto nei casi di epilessia farmacoresistente e, fino a tempi molto recenti, esistono in letteratura numerose pubblicazioni al riguardo14. Non si hanno dati relativi al perdurare dei risultati terapeutici di un digiuno drastico e di difficile applicazione su larga scala per pazienti in età pediatrica, ma si riscontrò un vantaggio anche con la sola esclusione dei carboidrati. Fu l’inizio delle diete chetogeniche, le cui numerose implicazioni nutrizionali meritano un paragrafo ad esse dedicato.

 

Il dilemma delle diete chetogeniche

In un testo riguardante le possibili implicazioni nutrizionali che, in positivo o negativo, influenzano l’equilibrio neuropsichico, non può mancare la dettagliata trattazione di una dieta, quella chetogenica, programmata, come si è già detto, non per dimagrire ma per cercare soluzioni terapeutiche in casi particolari di epilessia, soprattutto quelle farmaco-resistenti in età pediatrica. Prima di avanzare ipotesi sul perché a questo tipo di dieta corrispondono vantaggi terapeutici, e se questi ultimi siano duraturi nel tempo, va segnalata la diffusione delle sue numerose varianti come metodo dimagrante. Di fatto, l’induzione di chetoacidosi da privazione di carboidrati si è rivelata una efficace “scorciatoia” per perdere peso in modo rapido, il che ha portato al fiorire di una serie di proposte nutrizionali tutte improntate ad una riduzione più o meno drastica di zuccheri semplici e complessi. In condizioni normali, la fisiologia e la biochimica insegnano che la maggior parte dei tessuti e degli organi ricavano dal glucosio l’energia necessaria per funzionare, ad eccezione del cuore che lavora con una miscela di glucosio, acidi grassi e chetoni. In caso di digiuno o di assenza di carboidrati, una frazione sempre più significativa di glucosio viene prodotta tramite un processo denominato gluconeogenesi, distruggendo proteine della massa magra e metabolizzando aminoacidi, in particolare alanina e glutammina. Fortunatamente, esiste una seconda possibilità di ottenere energia a partire dagli acidi grassi, con produzione di corpi chetonici e “smontando” la massa grassa, il che ha enfatizzato la scelta di questo tipo di dieta in funzione dimagrante.

Quelli appena citati sono meccanismi biofisiologici possibili, ma del tutto alternativi rispetto al normale approvvigionamento glicidico garantito da una alimentazione completa di tutti i suoi nutrienti. Poiché solo all’Uomo è concesso il privilegio di sbagliare per imparare a correggersi da solo, mentre la Natura è già perfetta e non erra mai, c’è da chiedersi la ragione di queste vie alternative per assicurare la sopravvivenza. Una ipotesi potrebbe essere quella di fronteggiare la scarsità di cibo in tanti periodi storici e nella realtà attuale di tutte le popolazioni denutrite del pianeta. Se questa ipotesi fosse corretta, sarebbe evidente che la condizione di chetoacidosi costituisce una forma di adattamento di emergenza, che sacrifica i lipidi e le proteine accumulate nei momenti di abbondanza. Anche solo in funzione dimagrante, un nutrizionista attento alla salute dei suoi pazienti, quindi, dovrebbe riflettere sul fatto che un meccanismo biochimico previsto per condizioni estreme di sopravvivenza, non può essere salutare a lungo termine.

Uno dei pionieri delle diete chetogeniche a scopo dimagrante fu, negli anni Settanta del secolo scorso, il Prof. George L. Blackburn (figura 10) dell’Università di Harvard (USA), che ideò e sperimentò una programmazione nutrizionale incentrata sull’impiego esclusivo di alimenti proteici, con esclusione totale dei carboidrati, in parte dei lipidi, e con la sola concessione di qualche vegetale a basso contenuto glicidico. A fronte dei primi sorprendenti risultati positivi, di questa “filosofia” alimentare se ne impossessò subito il mercato e comparvero integratori proteici di tutti i tipi. Come si può ben immaginare, il pubblico fu inondato da prodotti più o meno “miracolosi” a seconda della capacità pubblicitaria delle singole aziende.

Trascorsero trent’anni fino al 2007, quando lo stesso Blackburn fece una severa revisione critica del metodo ipocalorico e iperproteico e, punto per punto, descrisse in un libro le sue considerazioni15. Nel testo non si trova alcun riferimento all’uso di pasti sostitutivi, vitamine o integratori. Anzi, l’autore stesso si scaglia contro questi supplementi, perché creano false aspettative, un senso di disperazione e sfiducia tra chi li usa, senza contare che essi possono ritardare o distogliere le persone dal mangiare in modo sano ed essere fisicamente attivi. Il libro ha un approccio multidisciplinare e l’argomento è trattato in maniera molto equilibrata basandosi sulle evidenze scientifiche a disposizione sino al 2007. Non si parla solo di alimentazione, dando regole pratiche molto utili, ma anche di attività fisica, interventi motivazionali, terapia cognitivo-comportamentale, mindfulness, controllo dello stress, igiene del sonno e ricerca della felicità. Quest’ultimo punto è veramente interessante e originale per un testo di nutrizione e obesità.

La lezione da imparare – scrive Blackburn – è che è estremamente impegnativo provare a perdere molto peso in poco tempo. Il tuo corpo si ribella contro questi tentativi, facendo riprendere il peso perso con il rischio di indurre strani e poco salutari comportamenti alimentari” (figura 11). E le diete chetogeniche? Quale spazio viene riservato loro nel trattamento dell’obesità da parte di uno dei pionieri di questo tipo di diete? Nessuno! Non vengono neppure menzionate come opzione terapeutica! Anzi è interessante leggere cosa scrive Blackburn delle diete drastiche alla moda: “Non servono a nulla perché non sono sostenibili nel lungo termine, non permettono di acquisire nuove abitudini salutari e si ritorna inevitabilmente a quelle vecchie”. L’autore cita espressamente il suo studio di dottorato degli anni ’70 in cui aveva paragonato la dieta chetogenica (da 400-800 kcal al giorno) con un semplice trattamento ipocalorico (-500 kcal al giorno), su 668 soggetti. Risultato: dopo due anni dal trattamento coloro che avevano seguito la dieta chetogenica avevano recuperato più di metà del peso perso e molti manifestavano seri problemi di salute; invece, alla fine dei due anni il gruppo che era dimagrito lentamente aveva perso peso in egual misura se non più rispetto a coloro che avevano seguito la dieta drastica. Quando si perde troppo rapidamente più del 10% del proprio peso, il corpo inizia ad opporsi al cambiamento, come confermano molti studi clinici.

Eppure, lo stesso Blackburn conosceva Ancel Keys (Figura 12), il noto sostenitore della dieta mediterranea, che già negli anni Cinquanta aveva sperimentato i danni della restrizione alimentare in un esperimento noto come Minnesota Starvation Experiment. In pratica, furono arruolati trentasei giovani obiettori di coscienza normopeso e in piena salute, che si erano offerti volontari rispondendo a uno strano volantino che chiedeva: Will you starved that they be better fed? (Morirai di fame affinché altri vengano nutriti meglio?). Dopo qualche settimana, gli sperimentatori riportarono numerose alterazioni fisiologiche come: ridotta tolleranza alle basse temperature, vertigini, stanchezza estrema, indolenzimento muscolare, dolori addominali, scomparsa del desiderio sessuale, perdita di capelli, ridotta coordinazione, ipersensibilità al rumore e alla luce e ronzii nelle orecchie16. Oltre a questi sintomi, furono rilevati anche importanti cambiamenti in tema con gli argomenti di questo libro: depressione, irritabilità, apatia, ansia, sbalzi del tono dell’umore, fino all’insorgenza di ideazioni ossessive riguardo il nutrirsi, simili a quelle dei soggetti anoressici.

Affamare per dimagrire non è stata mai una strategia perseguita dalla dottoressa Domenica Arcari Morini, ideatrice della Bioterapia Nutrizionale. Le similitudini di questo metodo con la dieta mediterranea sono notevoli, anche se le mutate condizioni socioeconomiche, i differenti stili di vita e di lavoro, oltre a diversi fattori psicologici e culturali, hanno richiesto un adattamento e una rivisitazione moderna di quelli che furono i principi codificati dal Prof. Keys studiando le abitudini alimentari di Pioppi, un piccolo paese di pescatori e contadini del Cilento in provincia di Salerno.  L’esperienza di questo studioso americano innamorato del Sud Italia (dove visse per più di trent’anni e morto a Minneapolis nel 2004 due mesi prima di compiere 101 anni) è affascinante per chiunque sia interessato alle problematiche della nutrizione. In rete è scaricabile un documento gratuito che ne racconta la sua vicenda umana e scientifica17.

Dopo il doveroso excursus sulla controversa dieta chetogenica in funzione dimagrante, resta il problema di comprendere le ragioni che la rendono efficace in alcuni pazienti epilettici. Si è detto che l’utilizzo di questa metodica risale alla prima metà del 1900 e, per anni, essa incontrò un grande successo, con una fase di arresto dopo l’introduzione dei primi farmaci, consegnando il trattamento dietologico dell’epilessia alle note di polverosi libri di testo. Le fortune della chetogenica cambiarono nel 1994 quando i media americani riportarono con enfasi la storia del piccolo Charlie, figlio di un noto produttore cinematografico, curato da una forma intrattabile di epilessia al Johns Hopkins Hospital, dopo che decine di trattamenti diversi, convenzionali e alternativi, avevano fallito. Il padre, entusiasta dei risultati ottenuti, creò la Charlie Foundation, per promuovere l’utilizzo della dieta e finanziare studi sul meccanismo d’azione, contribuendo in maniera decisiva alla nuova popolarità della chetogenica come strumento per il trattamento dell’epilessia in ambito pediatrico.

Ritornando indietro nel tempo, il riscontro di un effetto anticonvulsivante della Water Therapy (praticamente solo acqua) del citato osteopata Hugh Conklin, attirò le attenzioni di diversi endocrinologi tra cui Russel Wilder, che propose di modificare il trattamento del digiuno in uno più sostenibile per il paziente, soprattutto in età pediatrica. Nello specifico, Wilder, a differenza delle diete chetogeniche a scopo dimagrante, propose uno schema alimentare normoproteico, ma ricco di grassi e povero di zuccheri, in grado di determinare una fisiologica produzione di corpi chetonici e ottenere risultati equiparabili al digiuno. L’ipotesi più accreditata è che lo stato di chetosi e la conversione, a livello epatico, degli acidi grassi in corpi chetonici attraverso una serie complessa di reazioni chimiche, consente l’utilizzo di queste piccole molecole (beta-idrossibutirrato, acetone, aceto-acetato) come substrato energetico per organi e tessuti, compresi i neuroni.

Nello specifico, si suppone che l’acido beta-idrossibutirrico contribuisca a ridurre l’azione eccitatoria del glutammato e favorisca quella inibitoria del GABA (acido gamma-amminobutirrico). Inoltre, la chetosi determina un miglioramento della funzione mitocondriale, con aumento della produzione di ATP e della capacità antiossidante endocellulare, il che contribuirebbe alla riduzione dell’eccitabilità neuronale. Gli acidi grassi a catena media, presenti soprattutto nel latte e in olio vegetali come quelli di palma o di cocco (proposti spesso come integratori) hanno anche dimostrato di influenzare il metabolismo degli aminoacidi, innescando un aumento del triptofano nel cervello, a cui si associa una ridotta eccitabilità dell’ippocampo18.

Nonostante i tanti farmaci antiepilettici, il fatto che un terzo circa dei pazienti non risponde alle terapie ha continuato a stimolare la ricerca di soluzioni nutrizionali utili. Per esempio, fra gli acidi grassi a catena media citati prima, va segnalato l’acido decanoico (cioè con una catena di dieci atomi di carbonio), noto anche come acido caprico o caprinico, in quanto presente nel latte di capra, di cui condivide l’odore caratteristico. Anche se non è ipotizzabile un suo impiego farmacologico, è molto interessante il fatto che l’acido decanoico ha lo stesso meccanismo d’azione di uno degli ultimi e più interessanti principi attivi antiepilettici, il Perampanel (Fycomba), che inibisce i recettori del glutammato a livello neuronale19. Degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) è dimostrato che facilitano l’apertura dei canali del potassio sulla membrana presinaptica20, modulandone l’eccitabilità e svolgendo una preziosa funzione neuroprotettiva. Di questi ultimi se ne parlerà ampiamente nel paragrafo successivo e nella figura 13 sono sintetizzati i fattori ritenuti essenziali per spiegare alcuni effetti positivi della dieta chetogenica antiepilettica.

 

Revisione della dieta chetogenica

Pur prendendo atto di studi che ne confermano l’efficacia, in Bioterapia Nutrizionale non viene praticata la dieta chetogenica classicamente intesa. L’obiettivo è di programmare un piano alimentare personalizzato e non una dieta, essendo consapevoli che a questa parola viene oggi attribuita una valenza negativa di imposizione, se non di costrizione. Infatti, anche in caso di patologie di una certa severità, la priorità è sempre quella di proporre soluzioni gradevoli, quotidianamente possibili e, ovviamente, efficaci. La conoscenza e lo studio delle abitudini alimentari storiche sono alla base della metodica bionutrizionale, fin dalle prime intuizioni della dottoressa Domenica Arcari Morini, risalenti agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In questo paragrafo si vedrà come sfruttare al meglio i vantaggi documentati in corso di dieta chetogenica, cercando di ridurre al minimo le sue controindicazioni. Infatti, nella valutazione clinica dei pazienti pervenuti alla nostra osservazione, quasi nessuno se ne è giovato a lungo; dopo i primi riscontri positivi in termini di riduzione delle crisi, subentrano disturbi gastrointestinali e metabolici e una insofferenza psicologica rispetto alla tipologia di alimenti proposti.

A differenza delle varie modalità di diete chetogeniche dimagranti, che privilegiano nutrienti di natura proteica, quella antiepilettica è, giustamente, polarizzata sulla quota lipidica, di cui il tessuto nervoso è composto in percentuale elevatissima. Va anche detto, però, che più del 60% delle epilessie insorgono e riguardano la fase neonatale e pediatrica della vita, fase di accrescimento somatico che necessita di una quota adeguata di proteine. Anche qualora i risultati terapeutici fossero confortanti, praticare la dieta chetogenica per tempi lunghi non sarebbe la migliore strategia nutrizionale per favorire i processi di crescita. A questa prima difficoltà se ne aggiungono diverse altre:

  1. a) possono insorgere i citati problemi di rallentato svuotamento gastrico e

          disturbi come vomito, nausea, diarrea o stipsi e dolori addominali;

  1. b) è difficile gestire il confine di una chetoacidosi tollerabile, oltre il

          quale l’acidosi metabolica può diventare pericolosa;

  1. c) possono subentrare deficit di vitamine e micronutrienti che richiedono

          la somministrazione di troppi integratori21;

  1. d) non secondario è il rifiuto psicologico di uno stile nutrizionale

          monotono e poco gratificante, che quasi sempre viene addotto

          come causa della sospensione della dieta.

Per spiegare gli effetti positivi della dieta chetogenica antiepilettica, le ipotesi più accreditate riguardano sostanzialmente il ruolo degli acidi grassi di cui si è parlato nel paragrafo precedente. L’idea che la restrizione degli zuccheri semplici e complessi sia determinante per togliere energia al neurone ipereccitabile è piuttosto aleatoria e del tutto antifisiologica. Sembrerebbe, quindi, che la riduzione degli zuccheri sia necessaria solo per indurre uno stato di chetoacidosi; quest’ultimo, a sua volta, favorisce la sintesi degli acidi grassi utili per conseguire l’effetto terapeutico. Fra questi ultimi, il più importante è l’acido beta-idrossibutirrico, per la cui sintesi da parte del fegato esistono due possibilità: a) partire dall’acido acetoacetico, che richiede l’induzione di uno stato di chetoacidosi, con tutte le controindicazioni citate prima; b) rendere disponibile il butirrato, intervenendo a livello del microambiante intestinale22. In Bioterapia Nutrizionale (figura 14) si privilegia la seconda opzione anche se più difficile e meno rapida, ma certamente consona al detto ippocratrico “primum non nocere”. L’implicazione dell’asse intestino-cervello riguarda, quindi, anche le sindromi epilettiche ma, ancora di più, le neuroatipie come l’autismo. Pertanto, si rimanda al relativo capitolo per una trattazione esauriente dell’argomento.

 

Controindicazioni alimentari

Prima di entrare nel dettaglio di suggerimenti nutrizionali che non incrementino l’ipereccitabilità neuronale, è indispensabile segnalare quei cibi o bevande che vanno ridotti o esclusi. Lo scopo è quello di poter arrivare a linee guida utili sia per attenuare i sintomi della patologia, che per ottenere una sinergia d’azione con i farmaci che il neurologo avrà prescritto. L’utilità di una programmazione nutrizionale mirata è ancora più importante nelle tante manifestazioni epilettiche farmaco-resistenti. Di seguito, una lista di quei nutrienti da considerare potenzialmente controindicati.

Glutammina e alanina - In un regime alimentare che preveda la riduzione degli alimenti glicidici e proteici, lo stato di acidosi induce comunque l’organismo a procurarsi parte degli zuccheri dalle proteine corporee, rendendo disponibili gli amminoacidi, primi fra tutti glutammina e alanina. Tenendo conto che la glutammina è un precursore del neurotrasmettitore eccitatorio glutammato, è ragionevole ridurne l’apporto alimentare nei pazienti epilettici. La glutammina è presente nei cibi a maggiore contenuto proteico, in particolare quelli di origine animale. Pertanto, anche nella programmazione dei pasti in Bioterapia Nutrizionale, si cercherà di non eccedere in quantità e frequenza con la carne rossa di manzo o cavallo, ma anche di agnello, della cacciagione e di alcuni prodotti ittici. I mitili e i crostacei (come le cozze, i gamberetti e i granchi, meno le vongole che, per il loro contenuto di calcio neurosedativo, possono essere utilizzate) e i pesci di mare contengono significative quantità di glutammina, a differenza dei pesci d’acqua dolce. Se si tiene anche conto del fatto che i pesci di mare d’altura (spigola, orata, merluzzo, ecc.) contengono anche significative quantità di iodio e fosforo, è intuitivo che non possono costituire la soluzione proteica ideale in caso di ipereccitabilità neurologica. Saranno, quindi, proposti pesci di acqua dolce come la carpa, il salmerino, la trota, il luccio, l’anguilla, il pesce gatto, il salmone, il coregone (detto anche lavarello), il persico e la tinca. In generale, si tratta di pesci ad elevato contenuto lipidico, il che è in linea anche con le indicazioni della dieta chetogenica classica. In Bioterapia Nutrizionale si fanno usare anche pesci di scoglio e di fondale, per esempio la sogliola, la platessa, il rombo, la rana pescatrice, la gallinella, lo scorfano, la cernia, le triglie e diversi altri, a seconda della zona di provenienza. L’utilità di quest’ultima categoria di prodotti ittici è giustificata dal loro contenuto in silicio e calcio, necessari per i processi di maturazione neurologica, e perciò proponibili anche ai neonati e ai bambini affetti da epilessia. Non per niente, essi sono consigliati dal pediatra durante lo svezzamento. Di minore impatto negativo è il contenuto di glutammina nel latte, nelle uova, nei legumi e in alcune verdure a foglia verde come lattuga, spinaci e cavoli. Da segnalare il rischio di assunzione di integratori a base di glutammina da parte di ragazzi che praticano attività sportive e siano anche a rischio di crisi epilettiche.

Per quanto riguarda l’alanina, essa è un amminoacido precursore della fenilalanina e, a seguire, della tirosina. Quest’ultima fa parte della catena biochimica per la sintesi di catecolamine eccitatorie come adrenalina, noradrenalina e, soprattutto, dopamina. Ne consegue che anche l’apporto di alanina dagli alimenti deve essere ridotto e, oltre alle proteine della carne, in generale sarà utile non eccedere con semi oleosi, soprattutto arachidi.

Formaggi - L’impiego di latte e derivati nelle cerebropatie con crisi epilettiche presuppone la verifica della loro tollerabilità intestinale e neurologica con test specifici, o anche solo clinicamente, qualora i sintomi peggiorino ogni volta che questi prodotti vengono consumati. Il calcio in essi contenuto sarebbe utile anche in funzione sedativa, oltre che per favorire i processi di accrescimento e mineralizzazione nei piccoli pazienti. Tuttavia, le sempre più frequenti problematiche derivanti da intolleranze al lattosio o allergie alla caseina, possono ridurre di molto la loro possibilità di impiego nutrizionale. Se le suddette problematiche non sono documentate fin dall’inizio, in corso di trattamento nutrizionale del paziente epilettico si terrà conto della eventuale comparsa di sintomi avversi. Il riferimento generico a latte e derivati deve essere approfondito valutando le notevoli differenze tra latte (e quali tipologie di latte), yogurt, kefir, ricotta, burro, formaggi molli e formaggi fermentati o stagionati. Anche se non si può stabilire una netta linea di confine tra questi prodotti, ai fini di un loro impiego nelle sindromi epilettiche, si dovrà fare molta attenzione ai formaggi. Infatti, i processi di stagionatura ed essicamento comportano una modifica del latte e la comparsa di nuovi nutrienti, non tutti idonei per contrastare l’ipereccitabilità neurologica o gli effetti collaterali dei farmaci assunti23.

In realtà, tutti i formaggi, a prescindere dal tipo di stagionatura, nascono dalla fermentazione del caglio; quindi, la distinzione tra formaggi fermentati e formaggi non fermentati non sarebbe corretta, men che meno con quelli stagionati. Quando si parla di formaggi fermentati solitamente ci si riferisce agli erborinati, cioè quelli che hanno subito un’intensa fermentazione. Negli erborinati, infatti, lo sviluppo di muffe produce la loro tipica cremosità e il loro sapore deciso. I più noti fra questi ultimi sono il Gorgonzola della Lombardia, il Roquefort e il Camembert francesi. La loro principale controindicazione riguarda il significativo contenuto di istamina e, soprattutto, di tiramina, più volte citata come precursore delle catecolamine e di neurotrasmettitori eccitatori, oltre che di cefalee molto severe.

Altrettanto prudente deve essere l’impiego di tutti quei formaggi definiti genericamente come “stagionati”, di cui i più noti sono il Parmigiano, Reggiano, il Grana Padano e tutte le varietà regionali di pecorino. La stagionatura rappresenta l’ultima fase della produzione e si tratta di un passaggio importante e piuttosto delicato, durante il quale si completa la trasformazione dei componenti del latte. Temperatura, umidità e durata del processo sono variabili fondamentali, che influiscono sulla consistenza della pasta del formaggio, nonché su aroma, gusto e aspetto, e tutti prevedono una fase di invecchiamento che può durare anni. Non sono in discussione il gusto e le notevoli proprietà nutrizionali di questi formaggi, ma anch’essi sono ricchi di tiramina, tirosina e taurina, del tutto controindicate quando bisogna ridurre il rischio di ipereccitabilità neurologica. Una ulteriore controindicazione dei formaggi è costituita dal loro notevole impegno epato-biliare e dal rischio di peggiorare la stitichezza, riportata fra gli effetti collaterali di numerosi farmaci entiepilettici.

Alimenti e bevande nervine - Oltre ai pesci più ricchi di glutammina, iodio e fosforo, e ai formaggi, vanno esclusi i funghi per l’impegno che provocano a carico del fegato e del rene, organi la cui funzione va tutelata nei pazienti epilettici. Per l’azione eccitatoria dell’acido citrico e della vitamina C, non bisognerà eccedere con frutti che ne sono particolarmente ricchi, soprattutto agrumi e kiwi. Quest’ultimo può essere irritativo anche per il suo notevole quantitativo di ferro. Fra i vegetali, oltre ai funghi, vanno segnalati il sedano, il cui contenuto in sedanina irrita le mucose digestive ed eccita il sistema nervoso, ma azione similare hanno anche solanacee come melanzana e peperoni. Per quanto riguarda bevande e preparazioni commerciali contenenti caffeina, va detto che non esistono dati certi circa la necessità di una sua drastica esclusione da parte dei pazienti epilettici. Più correttamente, bisognerebbe valutare l'entità del suo apporto giornaliero e il tipo di prodotto che la contiene. Come già segnalato nel capitolo dedicato alle interazioni neuropsichiche di singoli alimenti, una tazzina di caffè può contenere dagli 80 ai 100 mg di caffeina, mentre una tazza di tè verde o nero quantità relativamente inferiori (30-50 mg). Salvo casi particolari, si ritiene che l'assunzione di 200-300 mg di caffeina nelle 24 ore non sia un problema negli epilettici adulti. Discorso a parte meritano, invece, bevande come il guaranà o i tanti energy drink, di cui spesso si abusa, potendo raggiungere percentuali giornaliere pericolose di molecole psico-attive, con l'aggravante della presenza di coloranti, zucchero o edulcoranti artificiali.

Alcol - Una raccomandazione per tutti i pazienti che assumono farmaci antiepilettici è l'esclusione drastica dell'alcol, compreso quello che può essere presente in dolci e creme di vario tipo. L'attivazione epatica che lo trasforma in zuccheri ad opera dell'enzima alcol deidrogenasi velocizza anche la catabolizzazione dei farmaci, riducendone l'emivita plasmatica e, conseguentemente, la durata dell'effetto terapeutico.

Glutine - Molto controverso è l’eventuale ruolo del glutine come fattore favorente l’eccitabilità neuronale. Nella pratica clinica verifichiamo spesso una riduzione del numero di crisi comiziali o della intensità delle stesse riducendo o escludendo i farinacei glutinati. Nel dubbio, si cerca di utilizzare quelli alternativi come il camut o il farro, oppure si prova ad escludere per qualche giorno il glutine in modo drastico, verificando un eventuale miglioramento della sintomatologia, secondo un criterio ex iuvantibus. In realtà, non è chiaro se sia direttamente implicato il glutine o sostanze derivanti dalla lavorazione moderna delle farine che lo contengono.

E’ probabile il concomitare di diversi fattori infiammatori a carico della mucosa enterica, comprese le alterazioni del normale microbiota. Da qualche anno si sta studiando la zonulina, una aptoglobina presente all’interno delle cellule intestinali, unica proteina umana scoperta finora che ne modula la permeabilità. Essa è stata chiamata “regolatore delle giunzioni strette”, in quanto controlla la dimensione degli spazi tra le cellule e il passaggio di sostanze nutritive (figura 15). In caso di eccesso di zonulina (oggi dosabile su campioni di sangue o di feci), le giunzioni normalmente strette tra le cellule rimangono aperte, la parete intestinale si danneggia a causa della creazione di queste “leakiness” e si innesca una cascata infiammatoria ritenuta responsabile di patologie autoimmunitarie e neurodegenerative24. Non esiste una terapia in caso di zonulina alta, ma solo prescrizione di probiotici e prebiotici e la raccomandazione generica di una dieta senza glutine. L’attenzione al “cervello enterico” è costante nella pratica bionutrizionale e perciò il campo di intervento è ampio, soprattutto quando si può intervenire a livello preventivo.

 

Linee guida nutrizionali

Zuccheri - Nel paragrafo precedente si sono già espressi dubbi sull’ipotesi che basti togliere gli zuccheri dalla dieta per non fornire energia ai neuroni ipereccitabili. Se da un lato è più prudente garantire la stabilità glicemica nella scelta dei cibi e nella composizione dei pasti, dall’altro bisogna assolutamente evitare crisi ipoglicemiche in un paziente epilettico, ancor più se si tratta di un bambino. Infatti, in carenza di glucosio circolante, il rischio è molto serio in quanto si attivano meccanismi immediati di compenso, primo fra tutti una liberazione di adrenalina da parte della midollare del surrene. Questa evenienza è molto probabile in caso di esclusione degli zuccheri, ma è possibile anche per un loro eccesso. Infatti, in condizione di iperglicemia si può verificare una eccessiva liberazione di insulina (iperinsulinismo), il glucosio entra nelle cellule e si riduce nel sangue, configurando la classica ipoglicemia secondaria.

Nella composizione di tutti i pasti si terrà conto di quanto detto prima e si assocerà sempre una sufficiente quantità di lipidi, che notoriamente rallentano l’assorbimento intestinale degli zuccheri. Se necessario, si escluderanno del tutto solo gli zuccheri semplici (frutta, dolci, gelati, ecc.) e si proporranno quelli complessi, con o senza glutine a seconda del contesto clinico.

Lipidi - Non sarà mai eccessiva la raccomandazione di non ridurre i lipidi nell’alimentazione di un paziente epilettico, ancor più se si tratta di soggetti in fase di accrescimento. Lo scopo non è indurre uno stato di chetoacidosi, quanto quello di evitare gli sbalzi glicemici e, soprattutto, fornire nutrienti fondamentali per il tessuto nervoso. Nei paragrafi precedenti si è evidenziata l’importanza di migliorare il microambiente intestinale per garantire la sintesi endogena di acidi grassi a catena corta come il butirrato.

Salvo casi di intolleranze e allergie, è possibile sfruttare alcuni derivati del latte di cui si è già fatto cenno (latte, yogurt, ricotta, kefir), ricchi anche di acidi grassi a catena media come quello decanoico o caprilico. La presenza di quest’ultimo nell’olio di cocco pone il dilemma di un suo impiego terapeutico e nutrizionale. I dubbi riguardano i processi che vanno dal momento della raccolta a quello della spremitura. Alcuni fornitori conservano le noci di cocco in grandi cataste o le lasciano addirittura essiccare sui cigli delle strade. Le noci invecchiano diversi mesi prima di venire lavorate, il che ha conseguenze negative sulla qualità e la genuinità dell’olio. Nulla vieta, però, di utilizzare pezzetti di cocco nelle insalate o come merende, confidando nel fatto che in questo caso il frutto è visibile nella sua interezza e se ne può valutare lo stato di conservazione.

Indipendentemente dallo stato di salute, anzi per preservare quest’ultimo più a lungo possibile, in Bioterapia Nutrizionale si fa un largo impiego di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi. Primo fra tutti l’olio extravergine d’oliva, sia per condire a crudo o conservare gli alimenti, che per soffriggere e friggere. A seguire, quei prodotti ittici definiti genericamente come “grassi”, dal pesce azzurro in generale al salmone o alla preziosa anguilla, che molti dei nostri piccoli pazienti gradiscono in modo particolare. Pesci semigrassi sono il tonno e il pesce spada, da proporre saltuariamente per il rischio di presenza di mercurio.

Proteine - Della quantità di proteine e dei cibi che ne contengono percentuali significative si è già discusso nei paragrafi precedenti. Nei pazienti in fase di accrescimento, le proteine non dovranno essere ridotte oltre certi limiti, tenendo presente che la carne può essere sufficiente due o tre volte a settimana, ma sono possibili i legumi, le uova e alcuni derivati del latte. Da notare che anche quei prodotti ittici, citati prima per il loro contenuto lipidico, non sono privi di una consistente quota proteica. Secondo i principi della Bioterapia Nutrizionale, che si basa sui dati della fisiologia e della biochimica, il maggiore apporto proteico dovrà essere riservato al pasto di mezzogiorno. Di sera, dovranno prevalere i carboidrati, sia per la loro rapida digeribilità, che per evitare il rischio di disturbi del sonno dati dall’effetto generalmente eccitatorio degli alimenti proteici.

Vitamine - Non è condivisibile l’opinione che le vitamine fanno sempre bene e più se ne assumono meglio è, magari ricorrendo a diversi integratori, ognuno pubblicizzato come il più efficace. Uno stile alimentare, se completo, equilibrato e vario, è sufficiente per garantire tutto ciò che serve alla salute. Il ricorso ad integratori ha senso solo quando, per scelte e abitudini personali, la dieta è monotona e selettiva, comunque previo dosaggio emato-chimico che evidenzi l’oggettiva carenza di una o più vitamine. Una seconda indicazione riguarda pazienti affetti da disbiosi severa o malattie infiammatorie intestinali croniche che non permettono il consumo di molti cibi o limitano l’assorbimento dei nutrienti. Un caso particolare è quello della vitamina D, la cui sintesi endogena e le molteplici implicazioni organiche, la rendono più simile agli ormoni che non alle classiche vitamine. Come per molte altre patologie, anche nel caso delle sindromi epilettiche, è necessario chiedere il dosaggio ematico della vitamina D, prima di iniziare qualsiasi trattamento nutrizionale. Qualora essa risultasse al di sotto dei valori minimi rispetto al range di riferimento, il che è frequente, bisogna integrarla con uno dei tanti prodotti disponibili. Infatti, abbiamo verificato che la sola alimentazione e l’esposizione ai raggi solari richiederebbe tempi troppo lunghi per garantirne la sufficiente disponibilità organica.

Equilibrio elettrolitico - Si è già accennato al ruolo del calcio nella fisiopatologia dei fenomeni epilettogeni, oltre a quello di altri ioni come magnesio, potassio, cloro e sodio. Per quanto riguarda il calcio, l’alimentazione deve garantirne una quota costante ed equilibrata, attingendolo non tanto dai formaggi, di cui è stata segnalata la problematicità, quanto dal latte, dalla ricotta, dal burro o dallo yogurt, almeno nei casi in cui non coesistano intolleranze al lattosio o allergie. Si potranno proporre con frequenza semi oleosi come pinoli, mandorle o nocciole, contenenti anche magnesio e potassio in diverse proporzioni. Fra i legumi, i ceci sono particolarmente ricchi di calcio, oltre a verdure come il cavolfiore, il finocchio, i porri o i fiori di zucca. Una fonte preziosa di calcio e di altri elettroliti si libera dal guscio e dal corpo delle vongole durante la cottura; il liquido che ne deriva viene ampiamente sfruttato in molte preparazioni nutrizionali.

Particolarmente utilizzati sono gli alimenti ricchi di potassio, come zucchina, banana, fagiolini e gli agretti (barba di frate), o la mela cotta. Del potassio si sfrutterà l’azione miorilassante e decontratturante esercitata a livello della muscolatura periferica, in modo da ridurre lo stato di contrattura e facilitare il lavoro dei terapisti della riabilitazione nei bambini cerebrolesi con epilessia.

Un dato ricavato dall’anamnesi bionutrizionale e dallo studio accurato delle appetenze espresse dai pazienti epilettici è la tendenza a salare gli alimenti più di quanto richiesto dalla maggior parte dei soggetti sani. Questa tendenza viene da noi assecondata con il riscontro di oggettivi vantaggi clinici in termini di minore frequenza e intensità delle crisi convulsive. Una conferma di questo riscontro empirico viene dal fatto che abbiamo proposto con successo un moderato aumento del cloruro dei sodio anche nei pasti di bambini molto piccoli, che non sono in grado di esprimere le loro appetenze. In molti casi suggeriamo alla mamma di mettere un chicco di sale marino integrale in bocca al bambino quando percepiscono i primi segni di una crisi in arrivo, oppure di bagnare la lingua e la mucosa orale con acqua salata, anche in stato di incoscienza del piccolo paziente. Probabilmente, l’assorbimento sublinguale di ioni sodio e cloro, passando immediatamente nel circolo sanguigno generale, tendono a riequilibrare in parte il potenziale di membrana alterato, riducendo la sintomatologia o interrompendo una crisi comiziale in arrivo. Poiché il sale marino contiene già una quota moderata di iodio (utile anche per contrastare il rischio di ipotiroidismo di molti farmaci antiepilettici di prima generazione)25, è assolutamente vietato il sale iodato che potrebbe aumentare l’eccitabilità neuronale.

Nella gestione nutrizionale del paziente epilettico non bisogna polarizzare l’attenzione su un solo elettrolita, bensì avere l’accortezza di comporre la sequenza dei pasti con una rotazione di cibi che li contengano tutti, in modo da garantire un loro apporto equilibrato e costante.

 

Esempi di programmazione nutrizionale

Colazioni

Da bere - 200 cc circa di latte intero fresco Alta Qualità (in assenza di intolleranze al lattosio o di allergie alla caseina) con cacao o orzo, in alternativa camomilla calda o fredda al limone, oppure latte di mandorla. Si potrà anche proporre una tisana neuro-sedativa come quella di valeriana.

Salvo specifiche controindicazioni, la scelta del latte sarà quella più idonea a frenare l’ipereccitabilità neurologica. Il perfetto equilibrio fra calcio, lipidi, proteine e lattosio presenti in quest’alimento lo rendono idoneo in caso di ipereccitabilità neurologica. Non per niente la natura lo ha previsto nella fase neonatale, quando c’è l’esigenza della crescita senza, però, stimolare ulteriormente la spontanea vivacità del bambino piccolo. Qualora non fosse possibile proporlo come prima scelta, si ricorrerà alla camomilla con infusione di almeno quattro minuti o al latte di mandorla. In effetti, anche il latte di soia avrebbe un effetto neuro-sedativo, ma in Bioterapia Nutrizionale se ne fa un uso molto limitato a causa delle numerose problematiche secondarie all’impiego della soia e derivati. Una scelta alternativa a colazione, ma anche durante la giornata o prima di andare a dormire, potrebbe essere quella di una tisana di valeriana, facilmente reperibile in erboristeria. Azione sedativa avranno anche la tisana di alloro o quella di basilico.

Da mangiare - Pane (tostato per abbattere eventuale presenza di lievito in eccesso nella mollica) o fette biscottate con marmellata, o meglio con burro di ottima qualità e marmellata, o pane con olio e pizzico di sale, o con affettati crudi (prosciutto, bresaola, speck o lonza).

L’esigenza di fornire una quota significativa di lipidi per bilanciare l’elevato consumo energetico dovuto all’eccitabilità neurologica giustifica la scelta del burro o del prosciutto crudo (in assenza di reattività allergiche), oppure di altre proteine ad elevato potenziale bionutrizionale. Soluzioni ad eccessivo carico glicemico, come il pane, le fette biscottate o delle brioches con sola marmellata o miele potrebbero indurre una secondaria ipoglicemia a distanza di una o due ore dal pasto con conseguente attivazione dell’adrenalina e del cortisolo e aumento dei sintomi di eccitabilità. Un frutto ricco di potassio come la banana costituirà un’aggiunta ideale alla colazione e, nei casi più severi, si proporrà anche della frutta secca, in particolare le mandorle, ricche di potassio, calcio e magnesio.

 

Merende

Eventuali merende ripeteranno le scelte fatte a colazione, ovviamente alternando le varie soluzioni. Uno yogurt intero con frutta secca costituirà un’efficace soluzione alternativa. In fase acuta, per esempio in caso di tremore, tachicardia e agitazione, si ricorrerà a sorsi frequenti di latte o a due o tre cucchiai di yogurt (calcio), insieme a pezzetti di banana (potassio). Tale associazione si ripeterà anche a breve distanza di tempo, fino alla remissione della sintomatologia.

 

Possibili pranzi

1 - Patate al forno, fettina in pizzaiola, zucchina trifolata, e banana.

In questo esempio di pranzo prevarrà il potassio (utile, per esempio, quando la sintomatologia si esprime con crampi muscolari frequenti), presente nelle patate, nella zucchina e nella banana. Sarà importante una quota proteica di carne bianca con gli elettroliti del pomodoro.

 

2 - Pesce al forno con patate, cavolfiore in besciamelle, lattuga o valeriana o cappuccina con olio, sale, olive, frutta secca e pezzetti di arancia o di avocado.

Fra i prodotti ittici saranno meno problematici i pesci di scoglio o di fondale, più ricchi di silicio e calcio che di iodio e fosforo. Si potrà scegliere la sogliola, la pescatrice o il rombo associato al potassio delle patate. La quota di calcio sarà garantita dal cavolfiore (ricco anche in bromo neuro-sedativo), sfruttando la cottura in besciamelle, che associa latte e burro ai carboidrati della farina. La valeriana, o verdure crude sedative appartenenti alla famiglia delle “Composite”, come la classica lattuga romana o la cappuccina, costituiranno uno dei contorni più adatti. A seconda dei casi, si arricchirà l’insalata con arancia a pezzetti e/o avocado.

 

3 - Supplì di riso, scaloppina al limone, due indivie belghe crude condite o meglio in besciamelle e mango o banana.

I supplì di riso costituiranno una preparazione utile in caso di ipereccitabilità neurologica e saranno di solito molto graditi dai bambini. La scaloppina fornirà la quota maggiore di proteine, mentre l’indivia belga sarà utile per il suo contenuto di ferro, ma anche di calcio, se verrà proposta in besciamelle. Si potrà concludere il pasto con la banana, oppure con il mango. Quest’ultimo è ricco di acidi grassi vegetali.

 

Possibili cene

1 – Pasta (eventualmente senza glutine) e patate, 50-70 g di ricotta e cardi o belghe in besciamelle.

Correttamente preparata, la pasta e patate avrà una spiccata azione neuro-sedativa e d’induzione del sonno, sia per il triptofano (precursore della serotonina) presente nei farinacei in genere, sia per gli zuccheri complessi presenti nei carboidrati della pasta e di quelli a più rapido assorbimento forniti dall’amido delle patate. Al potassio di queste ultime si assocerà il calcio della ricotta (meglio di capra, per il contenuto di acido caprilico e per la maggiore tollerabilità del suo contenuto in lattosio) e delle verdure in besciamelle.

 

2 - Gnocchi di patate o polenta al pomodoro e basilico (con eventuale aggiunta di ricotta, meglio se di capra), zucchina trifolata o in pastella e 50 g di salmone affumicato con filo di olio e goccine di limone.

Per lo specifico effetto sedativo del basilico, questo sugo sarà adatto nei disturbi in oggetto in questo capitolo. Oltre a quello delle patate e della polenta, il potassio sarà presente nella zucchina, da preparare in pastella nei bambini e nei ragazzi epilettici che manifestino avversione verso altre modalità di cottura di questo vegetale. Si completerà la cena con la moderata quota proteica del salmone affumicato, di cui il paziente si gioverà per il suo contenuto in acidi grassi polinsaturi.

 

3 - Riso con burro e Parmigiano, un uovo strapazzato, valeriana o cappuccina condite e mela cotta, o caramellata o in pastella.

Cena di solito gradita anche dai bambini (da notare che la valeriana cruda è di solito accettata anche da soggetti che non amano molto le verdure) prevede l’associazione dell’amido e del potassio del riso al calcio del burro e del Parmigiano (da aggiungere in piccola quantità e comunque quello 36 mesi, senza lattosio). Alla moderata quantità proteica dell’uovo si sommerà l’azione sedativa e miorilassante del potassio della mela cotta, potendola anche proporre in pastella, modalità particolarmente gradita dai piccoli pazienti.

 

Riferimenti bibliografici

1-Dal sito www.bioterapianutrizionale.com

2-Cfr. Salute Europa, “Epilessia: una patologia che colpisce anche gli anziani”, in www.saluteeuropa.it, 2008.

3-Fradà G., Fradà G., Semeiotica medica nell’adulto e nell’anziano. Metodologia clinica di esplorazione morfofunzionale, Piccin Nuova Libraria, 2003, p. 769.

4-Guyton A.C., Trattato di fisiologia medica, tr.Curatolo A., D’Arcangelo P., Piccin Nuova Libraria, 1995, p. 756.

5-Ibidem.

6-Ibidem, p. 133.

7-Cfr. McNamara J. O., “Cellular and molecular basis of epilepsy”, in J.Neurosci., 1994, 14; 3413-3425.

8-Goodman, Gilman, Le basi farmacologiche della terapia, McGraw-Hill, 1997, p. 461.

9-Guyton A.C., op.cit.to, p.512.

10-Ibidem.

11-Ibidem, p. 513.

12-Arcari Morini D., D’Eugenio A., Aufiero F., Il potere farmacologico degli alimenti, Edizioni RED, Milano 2005, p. 39.

13-Fradà G., Fradà G., Op.cit.to, p. 38.

14-Guyton A.C., op.cit.to, p. 510.

15-Cfr. Evans J., “Low-down on low-fat milk”, in WDDTY, Vol. 18, n.1, April 2007.

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Trattamento Nutrizionale delle Ipercolesterolemie

Trattamento Nutrizionale delle Ipercolesterolemie

Il colesterolo costituisce una molecola organica talmente importante per la vita da essere sintetizzato per circa l'80% dallo stesso organismo. L'idea che nelle condizioni di ipercolesterolemia sia sufficiente eliminare i grassi dalla dieta o prescrivere farmaci ipocolesterolemizzanti contrasta con la fisiologia e la biochimica. Il trattamento nutrizionale costituisce una delle possibilità terapeutiche più efficaci per intervenire sul complesso metabolismo lipidico, a condizione di rispettare le funzioni organiche e stimolare il metabolismo endogeno, che contribuirà a regolarizzare gli equilibri fra la componente proteica, glicidica e lipidica.

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Terapia nutrizionale delle steatosi e delle epatiti virali

Terapia nutrizionale delle steatosi e delle epatiti virali

Relazione II Convegno di Bioterapia Nutrizionale, Hotel Parco dei Principi, 2000, Roma

Scopo

Il trattamento bionutrizionale agisce terapeuticamente in patologie epatiche come la steatosi e l’epatite virale. In queste affezioni l’impiego dell’alimento può essere una valida integrazione dei trattamenti farmacologici. In alcuni casi questa modalità terapeutica può essere risolutiva anche senza il supporto del farmaco di sintesi.

Materiali e metodi

Indagini strumentali, diagnosi e studio clinico di due casi di steatosi epatica ed un caso di epatite virale acuta. Analisi dei trattamenti bionutrizionali e dei riscontri ematochimici e strumentali atti a dimostrare l’evoluzione del quadro clinico.

Risultati

Nei casi descritti è stato possibile far regredire l’epatomegalia e la steatosi. Nel paziente affetto da una grave forma di epatite virale, la riduzione dei parametri ematochimici alterati documenta l’arresto e la regressione graduale del danno epatocellulare indotto dall’invasione virale.

Conclusioni

In alcune patologie epatiche la terapia bionutrizionale sortisce effetti particolarmente efficaci. Il corretto e mirato utilizzo delle associazioni alimentari potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza statistica della steatosi epatica, oggi presente in età sempre più giovanile e ad ottenerne la regressione nelle forme conclamate. Nei casi di epatite virale, la regolarizzazione delle transaminasi e degli altri parametri biologici e sintomatologici della malattia avvengono in tempi più rapidi rispetto a quelli ottenibili con l’impiego esclusivo di farmaci (interferone), senza far patire al paziente gli eventuali effetti collaterali.

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