Caratteristiche generali
Sebbene sia stato progressivamente automatizzato, il processo di panificazione è rimasto sostanzialmente lo stesso nel corso dei secoli. Secondo la Legge, si definisce “pane” il “prodotto ottenuto dalla cottura totale o parziale di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, con o senza aggiunta di sale comune”. Il pane così ottenuto si chiama “pane comune”. Nel presente capitolo si farà riferimento solamente a questa tipologia di prodotto, ricavato impastando solo acqua, farina bianca, lievito e sale. La ragione di questa scelta è dettata dalla semplicità dei componenti, codificati da una tradizione secolare che, se pure empiricamente, ne ha sperimentato l’utilità per la conservazione della salute umana. Se questo è vero in condizione di benessere, lo è ancor di più in caso di soggetti malati, nei quali i componenti aggiunti per migliorare le caratteristiche organolettiche del pane, o per esigenze di tipo commerciale, possono impedire o disturbare i naturali processi fisiologici di autoguarigione. Di fatto, esistono moltissime varietà di pane, differenti per modalità di preparazione e per composizione, anche a seconda delle varie aree geografiche. Nella maggior parte dei casi l’etichetta riporta: a) estratti di malto, per velocizzare e migliorare i processi di lievitazione; b) grassi anidri, che rallentano il decadimento del prodotto; c) acido ascorbico, che migliora la resistenza meccanica delle molecole di glutine; d) zuccheri, per migliorarne l’appetibilità e renderlo più croccante; e) olio, per rallentare il progressivo raffermarsi del prodotto.
Ognuno di questi componenti ha degli effetti collaterali, a seconda delle condizioni patologiche del paziente in trattamento. Per esempio, gli estratti di malto e gli zuccheri altereranno il già precario equilibrio glicemico di un soggetto diabetico, mentre i grassi anidri e l’olio non saranno idonei nel trattamento di soggetti con dislipidemie. Un’interessante e semplice prova, per valutare il maggiore o minore contenuto di zuccheri del pane, consiste nel masticarne un pezzo, senza ingoiarlo. Dopo averlo ridotto a poltiglia, si aspira aria a bocca aperta: il contatto dell’aria con il pane masticato fa percepire il sapore dolce, con gradi di dolcezza diversi a seconda dei vari tipi di pane. Con un minimo di pratica, si riuscirà a stabilire immediatamente se c’è stata addizione di zuccheri e se la lievitazione è avvenuta naturalmente, oppure no. Il pane naturale, non addizionato di zuccheri solubili, diventa un alimento meno aggressivo per la funzione endocrina del pancreas, non perché i suoi carboidrati siano diminuiti, ma perché sono meno utilizzabili dall’organismo. Da questo punto di vista, il pane peggiore è quello appena sfornato (anche per una presenza residua di lievito), tanto che nella tradizione popolare contadina non veniva mai consumato il pane caldo, a dimostrazione di come, pur non conoscendo i precisi meccanismi biochimici, l’esperienza secolare nell’uso di un alimento aveva selezionato nel tempo la migliore modalità di utilizzo per la conservazione della salute.
Una considerazione a parte merita il pane integrale, ritenuto a torto più sano e salutare del pane comune. Partendo dal presupposto che gli alimenti erano veramente “integrali” quando la produzione agricola non era intensiva come quella attuale e non venivano impiegate tutte le forzature colturali di tipo chimico, quelli attuali sono semplicemente prodotti “ricostituiti” aggiungendo la crusca al prodotto raffinato. Nel caso della farina, viene trattenuta una percentuale variabile di fibra insolubile, non digeribile, il cui unico vantaggio è quello di stimolare la peristalsi, ma secondo un meccanismo irritativo che può provocare danni cronici alla mucosa intestinale, soprattutto in soggetti a rischio di rettocolite ulcerosa e morbo di Crohn. La presenza di oligoelementi, sali minerali e qualche vitamina del gruppo B non è significativa rispetto ad altri alimenti, a fronte della maggiore difficoltà gastrica dei cibi integrali.
Il pane comune con farina di frumento, nella quantità media di 50 g a pasto, viene impiegato costantemente nei trattamenti nutrizionali per l’apporto di carboidrati complessi, ad integrazione o completamento dei tre pasti principali. Controindicazioni assolute al suo impiego sono la celiachia e tutte le intolleranze al glutine. In questi casi si ricorre a prodotti come le gallette di riso o di mais, o al pane di mais. Nei soggetti affetti da patologie renali il glutine aggrava la funzionalità del rene, ragion per cui la percentuale giornaliera di questa proteina vegetale, peraltro presente in numerosi altri prodotti alimentari, deve essere drasticamente ridotta. Nonostante la presenza dei carboidrati, il pane comune viene impiegato nell’alimentazione dei diabetici, dosandone la quantità a seconda degli altri componenti glicidici del pasto. In questa patologia si eviterà la tostatura della fetta di pane, in quanto il calore, se da un lato disattiva ulteriormente i lieviti residui, riducendo la possibilità di provocare meteorismo intestinale e di aggravare una condizione allergica, dall’altro scinde una quota aggiuntiva di amidi, rendendoli ancora più biodisponibili.
Nei pazienti schizofrenici è bene escludere o ridurre al minimo indispensabile l’impiego del pane di frumento, in quanto sembra avere un effetto aggravante la sintomatologia clinica e l’andamento della patologia mentale. Per quanto riguarda la funzionalità gastrica, il pane secco o la parte secca del pane, la crosta, sono utili in caso di iperacidità, perché assorbono i succhi gastrici in eccesso, dando un netto miglioramento della sintomatologia nei pazienti che ne soffrono. In questi casi si deve usare il pane secco ma non quello tostato che, pur avendo una funzione assorbente, indurrebbe una maggiore fermentazione acida per gli zuccheri più biodisponibili.