La pasta secca
La produzione e la modalità di cottura della pasta secca non rappresentano soltanto un’esigenza legata al gusto, ma influiscono in modo significativo sulla funzione e sulla digeribilità di questo alimento. La cottura in acqua ne provoca una progressiva imbibizione, che è tanto maggiore quanto più lungo è il tempo di bollitura. Quando questi tempi sono particolarmente prolungati, si ha un passaggio in soluzione di una quota consistente di principi nutritivi, i quali vengono inevitabilmente persi. In più, l’eccessiva imbibizione dell’alimento diluisce durante la masticazione gli enzimi glicolitici della saliva, con conseguente riduzione della loro efficacia. Quest’azione di disturbo continua nello stomaco, dove i succhi gastrici incontrano maggiori difficoltà ad aggredire un alimento gonfio e imbibito, il che comporta allungamento dei tempi di digestione e rischio di meteorismo intestinale.
Ne consegue che la cottura prolungata è assolutamente da sconsigliare nei pazienti con patologie gastriche ed epato-digestive, ma è poco conveniente anche nei soggetti sani, poiché è anti-fisiologico ostacolare la velocità dello svuotamento gastrico e ridurre la capacità di assimilazione. Nella pratica clinica quotidiana si consiglia al paziente di consumare la pasta cotta “al dente”, o anche ripassata in padella per aumentare il grado di disidratazione, a meno che non vi siano precise indicazioni che richiedano il contrario, come nel caso le patologie digestive caratterizzate da accelerato transito.
La pasta secca più comune è quella di semola di frumento che possiede un componente di cui altri farinacei sono carenti o privi: il glutine. Quest’ultimo, per la sua natura proteica, possiede notevoli proprietà “strutturanti”, mentre il legame con la quota zuccherina ne frena l’assorbimento rapido, per cui costituisce un alimento ottimale nei diabetici, nei quali si devono evitare i picchi iperglicemici. Esistono però delle intolleranze specifiche e delle controindicazioni all’uso della pasta di frumento. Le prime sono evidenti nei soggetti affetti da morbo celiaco o intolleranza al glutine, nei quali manca, o è insufficiente, il corredo enzimatico necessario per digerire questa proteina vegetale. In questi casi, prima di ricorrere alle farine del tutto prive di glutine, è possibile alimentare il paziente con la pasta di farro o di kamut, che ne contengono una ridotta percentuale. Altre controindicazioni sono rappresentate dalle difficoltà della funzione renale, tanto che i nefrologi fanno usare una pasta deproteinizzata, secondo procedimenti non sempre privi di effetti collaterali.
Il processo di produzione e il formato della pasta hanno un significato importante in rapporto allo scopo alimentare e terapeutico richiesto. Normalmente, l’industria prepara i vari formati di pasta attraverso la fase della trafilatura. Quest’operazione viene effettuata facendo passare l’impasto non ancora essiccato, quindi morbido, attraverso griglie di bronzo o di metallo rivestite di teflon, che daranno la forma al prodotto. Il passaggio però genera attriti, quindi aumento relativo della temperatura e così gli amidi tendono a scindersi e a formare zuccheri semplici, con più rapido rilascio e assorbimento. Ne deriva che la pasta cosiddetta “corta”, o comunque più lavorata, ha una velocità di cessione degli zuccheri maggiore, quindi è più adatta nei casi in cui sia richiesto un assorbimento rapido degli zuccheri a breve distanza dal pasto. Proprio per questo motivo, essa sarà meno indicata nel diabete, o quando si vuole una cessione più lenta e più duratura, il che avviene utilizzando spaghetti, linguine, bucatini, e tutte le tipologie commerciali che, in fase di produzione, abbiano subito un minore stress meccanico e termico. Ciò non deve ingenerare, però, la convinzione che sia generalmente preferibile usare la pasta cosiddetta lunga per non correre “rischi”. Anzitutto perché, in condizioni di benessere, l’uso variato dell’uno o dell’altro formato non provoca stati patologici. In secondo luogo, perché in molti casi è invece preferibile utilizzare pasta corta, per ottenere un “rifornimento” più rapido e mettere, ad esempio, il fegato in condizioni di rispondere rapidamente a una richiesta metabolica maggiore da parte dell’organismo, come avviene nell’eliminazione di tossine conseguenti a lavoro muscolare intenso, negli stati febbrili, nelle intossicazioni alimentari e non, e anche nella fase mestruale o ovulatoria del ciclo femminile, quando al fegato viene richiesto un lavoro ormonale supplementare.
Va detto, in conclusione di queste considerazioni generali, che l’utilizzo delle proprietà nutrizionali della pasta non può prescindere dalla conoscenza delle singole preparazioni, delle associazioni con altri alimenti e delle condizioni fisiologiche o patologiche del soggetto in trattamento. Solo allora sarà possibile valutare gli alimenti come un insieme di sostanze capaci di agire biochimicamente a un livello profondo, tanto da poterli utilizzare come veri e propri rimedi, con le indicazioni e le controindicazioni relative alle varie situazioni cliniche.
Per quanto riguarda la pasta di grano duro, essa ha un colore leggermente giallino. Purtroppo, anche per quest’alimento esiste la possibilità non tanto remota di frodi alimentari, persino con aggiunta di additivi vari, o dell’impiego di tecniche non ottimali di essiccatura del prodotto, che richiederebbe temperatura e ventilazione adeguate. Un criterio di distinzione è quello di osservare l’acqua di bollitura a fine cottura: la pasta di grano duro lascia l’acqua pulita e trasparente, quella di grano tenero manda in soluzione una certa percentuale di glutine, con inevitabile intorbidamento. Riflettendo su quanto detto, si può facilmente comprendere che la pasta di grano duro è qualitativamente migliore perché trattiene una quota maggiore di glutine senza cederla in soluzione. Nello stesso tempo è più facilmente aggredibile da parte degli enzimi digestivi, in virtù del suo minore grado di imbibizione.